Roberto Faenza è un grande regista: basta vedere il film "I Viceré" per averne contezza. Un Grande che, purtroppo, è in una categoria in cui vengono definiti registi pure improvvisatori, non solo in Italia, che pensano di innovare il cinema e la fiction televisiva muovendo la telecamera con effetto "mal di mare", e tralascio il resto...
Da lui non potevamo che aspettarci un prodotto pregevole, anche se si occupa di un fatto di cronaca nera girato e rigirato fino alla nausea dai media in questi oltre 20 anni. Gli attori da lui diretti, a cominciare dal bravissimo Silvio Orlando, sono perfetti. Non sono una che si emoziona più molto, perché alla mia età troppe ne ho viste, lette e sentite di cose amare, ma le sequenze dell'angoscia della famiglia di Simonetta, nella sua normalità, che non vede rientrare la figlia e sorella a casa, sapendo cosa li aspetta, mi hanno trasmesso tensione ed ansia. Perché so che è tutto vero, reale. E' incommensurabile il dolore di chi viene proiettato dalla propria vita normale in una simile tragedia. E ancora una volta è stato messo in risalto cosa avviene a chi subisce un ingiusto ed orribile crimine: sopra le vittime, l'ucciso e chi lo amava, si aggirano mostruosi corvi, oscene iene, umani che fanno telefonate anonime a chi è annichilito dal dolore, che insultano e calunniano.... Questi esseri sono allo stesso livello dell'assassino, senza ombra di dubbio.
La tristissima storia di Simonetta è simile a tante altre, troppo spesso donne, uccise che non riescono ad avere una giustizia chiara e limpida.
Da cosa dipende? Gli assassini sono fortunati? Gli inquirenti incapaci? I giudici pavidi ed eccessivamente garantisti?
Di certo è che la realtà non è un libro di Agata Christie in cui l'assassino, messo alle strette, confessa in ogni particolare il suo delitto. Gli assassini, lo sanno bene gli inquirenti, si dichiarano innocenti anche di fronte all'evidenza. Quando, qualcuno, in un cedimento confessa, spesso ritratta tutto dando la colpa della sua confessione ai metodi di chi lo interrogava. Eppure non siamo in uno Stato che applica la tortura! Raramente chi uccide si pente, anche quando ha ucciso il proprio tenero figlioletto, vedi la madre di Samuele Lorenzi, bensì pensa solo a preservare sé stesso.
Stupisce il fatto che, pur avendo sofisticati mezzi scientifici, non si riesca ad arrivare alla verità se non raramente, come nel caso della contessa Filo Della Torre.
La prova scientifica deve essere collocata all'interno di una logica stringente, altrimenti anch'essa è vana. Il sangue del cameriere che ha ucciso la contessa non poteva trovarsi dove l'hanno trovato perché, ormai licenziato, era estraneo ad un luogo così ristretto come la camera da letto della vittima. Dunque il fatto che fosse lì costituiva una prova principe.
Estrapolare un DNA dalla vittima, senza poter sicuramente definire quando vi è stato lasciato, come nel caso di Raniero Busco, dovrebbe rendere i giudici cauti. Lo sono stati fin troppo per il caso di Garlasco: le scarpe pulitissime del fidanzato della vittima non sono una prova principe, ma il calcolo delle probabilità che una persona ignara, entrando in una casa piena di sangue in terra, non abbia neppure una labile traccia di sangue, invisibile all'occhio umano ma visibile al luminol, sulle suole, fa molto pensare che quelle scarpe non siano quelle con cui il fidanzato dice di essere entrato e di aver scoperto il cadavere. Per non parlare del suo DNA sul portasapone di uno dei bagni della casa dove Chiara Poggi è stata uccisa.