Per l’opinione pubblica era un secondo caso Cogne: una giovane madre, una bambina uccisa, una scarpa come arma del delitto e una «confessione» carpita all’assassina grazie a un’intercettazione ambientale.

Ma Elena Romani non è Annamaria Franzoni, Roasio non è Cogne. E così, testimone dopo testimone, perizia dopo perizia, le «granitiche» prove iniziali si sono sfaldate una dopo l’altra. La scarpa, una décolleté rosa con una fibbia a mezzaluna, non è compatibile con la ferita, l’intercettazione ambientale è confusa. Anzi, secondo i giudici della Corte d’Assise di Novara, perfettamente spiegabile con quanto poi dichiarato dalla madre. Elena Romani, l’hostess di Legnago accusata di aver ucciso la sua bimba di 22 mesi, Matilda, è stata assolta in primo grado perché le prove erano insufficienti.

Ieri, dopo che il processo d’Appello a Torino ha portato alla luce nuove circostanze, è stata assolta con formula piena. Roasio non è Cogne. Il 2 luglio 2005, il giorno in cui Matilda è stata uccisa, Elena Romani non era sola in casa come Annamaria Franzoni. Accanto a lei c’era il suo compagno dell’epoca, Antonio Cangialosi, un vigilantes conosciuto qualche mese prima in un centro commerciale. Cangialosi, dall’inchiesta, uscì subito: per due volte il sostituto procuratore di Vercelli Antonella Barbera aveva chiesto nei suoi confronti il non luogo a procedere. E per due volte il Gip aveva chiesto, invece, di approfondire.

Poi, a pochi giorni dall’inizio del processo contro Elena Romani, la Cassazione aveva dato ragione alla procura: nessun sospetto su Cangialosi. Ora tutto è cambiato. La Corte d’Assise d’Appello di Torino, presieduta dal giudice Alberto Oggè (tra l’altro lo stesso che ha condannato la Franzoni), non solo ha assolto Elena Romani ma ha predisposto l’invio degli atti alla procura di Vercelli perché si valuti la revoca del proscioglimento nei confronti di Cangialosi. Le indagini, secondo la corte, devono ripartire.

Un successo su tutta la linea per Elena Romani e i suoi due difensori, Tiberio Massironi e Roberto Scheda, che hanno sempre sostenuto che le indagini su Cangialosi erano state chiuse troppo in fretta. «All’epoca si parlava solo del processo Cogne, tutti volevano vedere in Elena Romani l’assassina della sua bambina, nessuno ha indagato su Cangialosi, nemmeno quando si contraddiceva sugli orari». A ribaltare la situazione in Appello sono state le perizie dell’anestesista Elsa Margaria e alla neuropsichiatra Maria Fagiani.

Le due esperte hanno stabilito che la bambina non poteva aver subito quelle ferite (frattura della costa, recisione del rene, spappolamento del fegato e scapsulamento del due organi per la violenza del colpo) senza lamentarsi. Un elemento fondamentale nella ricostruzione che Romani e Cangialosi fanno di quel pomeriggio: la bambina è nella camera da letto quando vomita. La Romani, che dorme sul divano con Cangialosi, si alza per andarla ad accudire.

Poco dopo si sveglia Cangialosi. La Romani gli affida la bambina ed esce per stendere fuori federe e cuscino sporcati da Matilda. Mentre la mamma è fuori, la piccola perde conoscenza. Diventa fredda, bianca, non respira. I due si prodigano, chiamano i soccorsi, ma quando arrivano i medici è ormai troppo tardi. La tesi della procura di Vercelli, ripresa in appello dal Pg Vittorio Nessi che ha chiesto 10 anni per la Romani, è sempre stata una: il colpo, inferto dalla madre, ha avuto i suoi effetti quando la bimba era con Cangialosi, che invece è innocente.

Ma le perizie pongono un dubbio pesante: come ha fatto la bimba, dopo un colpo del genere, a camminare, parlare e venir presa in braccio senza lamentarsi? Per questo la Corte ha chiesto nuove indagini su Cangialosi. Elena Romani, novella assolta, non può fare a meno di lanciare un appello a Cangialosi: «E’ finita. Sii uomo, confessa quel che è successo. Fallo per Matilda». Elena Romani non è Annamaria Franzoni. E Cogne non è Roasio. Le indagini non sono ancora concluse.


Fonte: la stampa