Appreso che il film italiano "La Grande Bellezza" usciva subito nelle sale di tutta l'Italia, ieri sono andata a vederlo.
Mio marito aveva visto come me i servizi sul Festival di Cannes dai telegiornali e, quando gliel'ho proposto, mi ha detto: "Deve essere "una palla", ma se vuoi..." .
Mio marito ed io abbiamo gusti diversi in fatto di cinema e a volte mi adatto io, a volte lui, a volte troviamo qualcosa che ci accomuna, come i film di Carlo Verdone ad esempio. Solo ormai anziana ho cominciato a dirgli: "Vai con Francesca." Nostra figlia ha gusti simili ai suoi e non disdegna film di fantascienza e di azione. Della fantascienza amo alcune cose, ma non film in cui non c'è una vera storia, plausibile anche nella costruzione fantastica.
I film che piacciono a me sono di sovente di fattura europea e trattano di psicologie umane, senza scoppi violenti e scene esageratamente movimentate.
Questo film "La Grande Bellezza" un denominatore che ci accomunava l'aveva: Roma.
Amiamo entrambi Roma, di un amore che non può essere quello di Paolo Sorrentino né di nessuno che non sia nato e cresciuto nel cuore di Roma come noi due, e per questo abbiamo scelto più di trenta anni fa di starne un po' distanti... ma solo un poco.
Quando ami certi luoghi e ne hai conosciuto la bellezza e la magia degli anni della ricostruzione dopo la Seconda Guerra Mondiale, l'umiltà e la speranza della gente, non è facile accettare l'invasione di tanta arroganza, volgarità e sporcizia venuta da fuori. Si assiste al degrado di una città, che certo ne ha viste tante nei secoli, ma questi tempi non sono dei migliori della sua Storia millennaria.
Paolo Sorrentino la filma con l'ammirazione di chi ne è rimasto affascinato venendo da fuori: conquistato dalle sue bellezze architettoniche e artistiche, e questo "amore" lo dimostra per come la riprende in questo film dalla splendida fotografia.
Ma la società che egli esplora non è "tutta" Roma, non è il suo cuore.
Basilica di Santa Agnese a Piazza Navona: uno dei luoghi fotografati nel film di Sorrentino
Sant'Agnese in Agone
1652 - 1657
Dalla chiesa eretta a Sant'Agnese (= La Pura). La via nel sec. XVII era detta di Gaspare Rivaldi, nome del proprietario di una casa. - Nel detto sec., nell'isola dell'attuale palazzo Pamphilj, quasi a metà, era uno stretto vicolo detto Pamphili, e nel sec. XVI, nella stessa isola, un altro vicolo chiamato 'Da Parione a piazza Navona'. La chiesa venne costruita nel luogo stesso ove, nello stadio di Domiziano, era la cella lupanare, luogo di perdizione, ancora visibile nei sotterranei. Agnese, della illustre famiglia Clodia, di 13 anni, per ordine di Sempronio, prefetto di Roma, fu qui condotta il 21 gennaio 303 (secondo altri nelle persecuzioni di Decio, 250 e 251) perché sacrificasse agli dei; Ella a tale imposizione rispose:
'Feriscimi, dunque, acciò il mio sangue ammorzi la fiamma che arde innanzi all'idolo',
e la risposta le fruttò il martirio. Narra Prudenzio, che fu denudata e ceduta alla libidine dei persecutori ma ad un tratto i biondi capelli della giovane la ricoprirono tutta di un aureo manto impenetrabile, celandone cosi le nudità.
Dalla chiesa eretta a Sant'Agnese (= La Pura). La via nel sec. XVII era detta di Gaspare Rivaldi, nome del proprietario di una casa. - Nel detto sec., nell'isola dell'attuale palazzo Pamphilj, quasi a metà, era uno stretto vicolo detto Pamphili, e nel sec. XVI, nella stessa isola, un altro vicolo chiamato 'Da Parione a piazza Navona'. La chiesa venne costruita nel luogo stesso ove, nello stadio di Domiziano, era la cella lupanare, luogo di perdizione, ancora visibile nei sotterranei. Agnese, della illustre famiglia Clodia, di 13 anni, per ordine di Sempronio, prefetto di Roma, fu qui condotta il 21 gennaio 303 (secondo altri nelle persecuzioni di Decio, 250 e 251) perché sacrificasse agli dei; Ella a tale imposizione rispose:
'Feriscimi, dunque, acciò il mio sangue ammorzi la fiamma che arde innanzi all'idolo',
e la risposta le fruttò il martirio. Narra Prudenzio, che fu denudata e ceduta alla libidine dei persecutori ma ad un tratto i biondi capelli della giovane la ricoprirono tutta di un aureo manto impenetrabile, celandone cosi le nudità.
Ci sono tante "Rome": in una città grande questo è normale...
La Roma delle periferie degradate, che però non esiste più tanto come quella descritta da Pasolini e dai registi del neorealismo: ora la società che vive anche a Tor Bella Monaca è mista. A punte di degrado sociale si mischiano operai e piccola borghesia che abitano e vivono lo stesso quartiere della città. Così è per altre zone periferiche.
Anche il cuore, il centro, è cambiato: molte abitazioni sono diventate uffici o sono state acquistate dagli stranieri. Chi ancora resiste e ci vive descrive rumori e chiasso di notte che rende il luogo, un tempo meraviglioso, invivibile.
Ma la Roma di cui si occupa Sorrentino in questo film è la Roma dei ricchi, di una ricchezza non si sa da quale ascendente conquistata o, se recente, "come" costruita... E in questa molle non necessità di lavorare veramente, rispettando impegni ed orari, preoccupandosi di risolvere problemi quotidiani, con ansia e stress, sta il treno di vita che conduce il protagonista e la gente di cui si circonda.
Gente che Sorrentino deve aver conosciuto bene, e lo dico da persona che scrive, gente la cui mostruosità psicologica lo ha colpito e la dipinge senza pietà, semplicemente descrivendola e facendo così affiorare situazioni grottesche e comiche, quando non addirittura repellenti.
Gep (o all'americana Jep) è ricco e vive in una bellissima casa con terrazza con affaccio sul Colosseo. Una vista che già basta a stordirti di bellezza. Non è un cattivo uomo, anzi. E' un raffinato, ma si lascia vivere mollemente frequentando e invitando a casa sua gente moralmente sfatta... in disfacimento... putrescente.
Perché? E' una sua scelta. Dunque non fa pietà nel suo vuoto, dato che se lo cerca. Potrebbe scegliere in modo diverso, libero dai lacci della necessità, e selezionare chi frequentare. Questo suo lasciarsi vivere mi ricorda un personaggio de "Gli Indifferenti", il più bel libro di Alberto Moravia, e più esattamente mi ricorda l'indifferenza del figlio e fratello che, pur vedendo lo sfascio intorno a sé, non agisce per cambiare le cose, nemmeno tenta.
Questa anestesia morale non assolve il protagonista della storia, il personaggio che Sorrentino ha scelto per descrivere tanti altri personaggi, tutti di un particolare ambiente.
L'ambiente non solo degli straricchi, ma anche di chi non lo è e squallidamente gravita nelle loro feste, sperando di trarne sostentamento e vantaggi per le proprie, spesso fumose, "attività", oppure per le proprie speranze di successo in un indefinito ambito culturale o dello spettacolo.
Gli attori sono tutti bravissimi. Persino Giorgio Pasotti, persino Sabrina Ferilli a cui si chiede, come sempre alla belle donne nel Cinema, di mostrare quanto più possibile del suo corpo.
Alla fine non si può non pensare a Fellini, anche se questo a Sorrentino non fa piacere: è inevitabile. Forse perché anche lui non era romano e Roma l'ha vista e vissuta come chi le radici le aveva altrove... le radici a cui, alla fine del film, fa riferimento Sorrentino.
"Cosa ne pensi?" Ho chiesto a mio marito all'uscita.
"Questo film aveva due protagoniste - mi ha risposto - una splendida ed una malinconica: quella splendida era Roma, quella malinconica, che accompagna il film fin dall'inizio, è la musica."
Sono stata d'accordo: la musica è il filo conduttore che accompagna una grande malinconia.
Sabrina Ferilli |
Giorgio Pasotti |
Pamela Villoresi
Alcuni degli attori che danno vita ai personaggi del film "La Grande Bellezza"
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Franco Graziosi |
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