Ilva, un morto sul lavoro e distruzione. E la maledizione senza fine
Sequestri della magistratura, trombe d’aria, morti sul lavoro, dati inquietanti sull’inquinamento ambientale e sull’aumento di tumori. Nello stabilimento siderurgico più grande d'Italia il peggio sembra non avere fine.
Marino Petrelli
Taranto: tromba d'aria |
Allargando lo sguardo dal proprio finestrino, è altrettanto facile distinguere lo stabilimento dell’Ilva e una nuvola bianca che avvolge la “città dei due mari”. Una nuvola di inquinamento e di morte, un alone negativo che da qualche mese attanaglia l’acciaieria più grande d’Italia. Quasi una maledizione, tra sequestri della magistratura, trombe d’aria, morti sul lavoro, dati inquietanti sull’inquinamento ambientale e sull’aumento di tumori. E il peggio sembra non voler finire. Un nuovo incidente ha portato via un altro operaio, il terzo in appena quattro mesi. Un dramma assurdo e frustrante, se si considera che è avvenuto in un settore dell’azienda attualmente fermo, ma che forse fermo per davvero non lo è anche grazie alla “salva Ilva ” emanata dal Governo e in attesa che il 9 aprile si pronunci la Consulta.
Stavolta è toccato a Ciro Moccia, 42 anni, da dieci all’Ilva. Grande lavoratore, scrupoloso, preparato lo raccontano i suoi colleghi. Ma che nulla ha potuto due notti fa di fronte allo sganciamento di un ponteggio. Un volo fatale di dieci metri, mentre il suo compagno di lavoro, Antonio Liti, è ricoverato in ospedale, in gravi condizioni, ma non è in pericolo di vita. Era originario di Portici, ma viveva a San Marzano di San Giuseppe ed era ormai diventato tarantino di adozione. Come sua moglie e le sue due bambine che adesso piangono il loro papà premuroso e sempre allegro. L’Ilva lo ha risucchiato e non lo ha fatto tornare più a casa dai suoi cari. Come Claudio Marsella, operaio di 29 anni del reparto movimento ferroviario, schiacciato il 30 ottobre da un vagone durante l’operazione di aggancio di un carro ferroviario. E come Francesco Zaccaria, anch’egli ventinovenne, rimasto intrappolato nella cabina guida di una gru caduta in mare al passaggio di una tromba d’aria a novembre. Inutili le ricerche, il suo corpo fu ritrovato tre giorni dopo in mare.
Tragedie che non possono passare inosservate, in una città dove l’Ilva miete morti come un rullo compressore, tra i tumori che colpiscono una percentuale altissima dei lavoratori e quelli che coinvolgono le generazioni più giovani, condannate a respirare veleno per una vita intera. Tragedie che pongono l’interrogativo se negli ultimi tempi l’attenzione aziendale sulla sicurezza sia calata e se le vicende dello stabilimento non debbano essere definite una volta per tutte da parte delle istituzioni. Per il bene degli operai, della città e della stessa famiglia Riva, che appare sempre più lontana dalla realtà e dalla volontà di risanare e reinvestire in questa fabbrica.
A fine luglio, all'indomani della decisione del
gip Patrizia Todisco di sequestrare alcune aree della fabbrica, ci recammo a Taranto per verificare la situazione, parlare con
gli operai, capire, scrivere, raccontare i fatti. Ci colpì la dichiarazione, una
delle tante, di un operaio che ci disse chiaramente che tra l’ammalarsi di
tumore o rimanere senza stipendio avrebbe preferito la prima ipotesi. “Qui
dobbiamo lavorare. A qualsiasi costo”, ci disse. Anche della morte per
mancanza di sicurezza aggiungiamo noi. Le chiamano “morti bianche”,
quarantasette dal 1993 ad oggi nello stabilimento, tre delle quali negli ultimi
quattro mesi. Sono i numeri, tragici, di un’azienda che continua a far parlare
negativamente di sé. Numeri che aleggiano tra gli impianti dell’industria
siderurgica più discussa d’Italia. Numeri che devono far riflettere e che
giriamo ai proprietari dello stabilimento con la speranza di essere illuminati e
confortati.
E poco importa che i dati annuncino una
riduzione del 9 per cento degli incidenti sul lavoro in Italia. Ciro non
c’è più. Come Claudio e come Francesco. Operai dell’Ilva, morti sul posto di
lavoro, eroi silenziosi di un’epoca in cui un misero stipendio vale più della
propria vita stessa. E non ci sono più i sette operai morti nel rogo alla
Thyssenkrupp. Offesi e umiliati anche dopo la morte nel processo di appello che
ha ridotto la pena all’amministratore delegato , Harald Espenhahn,
da 16 a dieci anni perché “non è ravvisabile l’omicidio volontario con dolo
eventuale, bensì quello colposo aggravato dalla colpa cosciente”. Sentenza che
arriva poche ore dopo la morte dell’operaio dell’Ilva. Fatale coincidenza che
alimenta ancora di più la “nuvola negativa” che aleggia su Taranto.
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La morte, per poter vivere dignitosamente lavorando, mi colpisce sempre e mi deprime.
Per secoli è accaduto che gli schiavi prima, la plebe dopo, non contassero nulla in molte parti del mondo, ed in tanti Paesi accade ancora.
Ma in Europa, culla di antica civiltà, abbiamo cercato di fare in modo che questo non accadesse più o che, quando accade, accada solo per fatalità.
Ma qui così non è, come in troppi casi.
La crisi, inoltre, induce a disperate dichiarazioni, da parte di chi deve campare la famiglia e sé stesso, come quella riportata nell'articolo.
Inutile dire che così non va bene e che non è accettabile.
L'Ilva è importante per l'Economia dell'Italia ma non si doveva arrivare al punto che, come al solito, arrivasse la magistratura. Perché quando arriva la magistratura vuol dire che la Politica ha fallito.
Se un Bersani si fa finanziare la campagna elettorale dal padrone dell'Ilva cosa dobbiamo aspettarci?
Chi ha consentito alla famiglia Riva, straricca, di non reinvestire per ridurre l'inquinamento e nelle sicurezze?
Il padrone dell'Ilva poteva ridurre i suoi profitti e usarli per queste ineludibili necessità.
Se paga i politici perché chiudano un occhio poi arriva la magistratura e ci rimettono tutti: il padrone, gli operai che restano senza lavoro, il politico che non ha fatto il suo dovere imponendo attraverso le istituzioni il rispetto delle leggi e delle regole.