Un crocevia del traffico di droga, sfruttamento della prostituzione, racket delle estorsioni e dell’usura. Attività in cui fioriscono e imperano realtà criminali feroci quanto abili nello spartirsi l’egemonia sul territorio. E in grado di reinvestire con grande fiuto finanziario i profitti delle proprie malefatte in settori produttivi altamente redditizi come edilizia e appalti pubblici, la creazione e la gestione di ristoranti e locali di prestigio, autosaloni di lusso, fino ai negozi di abbigliamento. Penetrando in forma capillare nell’economia pulita grazie a una zona magmatica di connivenze, complicità e intrecci con imprenditori, commercianti, professionisti, amministratori.
È questo il volto inquietante di Roma al voto per l’investitura del primo cittadino. Una metropoli permeata dal predominio della violenza, dell’intimidazione, della sopraffazione, rispetto a cui le istituzioni e i rappresentanti della legalità agiscono in un cronico ritardo. Perché nel corso degli ultimi anni la Città eterna ha visto affermarsi e consolidarsi il potere di poche figure e famiglie malavitose, che hanno assunto un ruolo nevralgico nelle sue aree strategiche anche nei confronti dei gruppi mafiosi originari del Mezzogiorno e dei sodalizi etnici internazionali.
Nella Capitale si sarebbe imposto un patto di “governo del territorio” che vede protagonisti gli eredi della Banda della Magliana, i reduci delle faide di camorra degli anni Ottanta, e i clan nomadi attivi nel tessuto urbano da lustri. Il loro impero, come messo in luce dall’Osservatorio sulla legalità dell’economia creato dagli studenti dell’Università Luiss di Roma, trova le sue radici nel mercato di stupefacenti, in primo luogo della cocaina. Che costituisce una fonte di guadagni per decine di milioni di euro al mese e circolerebbe in una quantità tripla rispetto a Milano, fino a poco tempo fa ritenuta l’epicentro del consumo di polvere bianca in Italia. Solo nell’agosto 2012 sono stati sequestrati 30,174 chili e altri 30 sono stati confiscati a ottobre, soprattutto nello scalo di Fiumicino, ormai divenuto uno snodo cruciale per corrieri e importatori.
Attorno al traffico di droga si cementano alleanze per lo più temporanee tra i gruppi malavitosi locali e le organizzazioni transnazionali artefici della raffinazione e del commercio di cocaina. Che invade l’intero tessuto metropolitano in modo indiscriminato, dalla periferia ai palazzi del centro storico, fino ai quartieri benestanti della zona Nord, e garantisce ai “signori del crimine” ricchezze e influenza smisurate. Con una differenza rilevante rispetto alle capitali dello spaccio di droga: i capi delle principali organizzazioni malavitose governano, regolamentano e autorizzano la compravendita di sostante stupefacenti nel “loro territorio”, permettendo o vietando l’accesso ai traffici ai gruppi di minore caratura, e riscuotendo in genere una percentuale sui ricavi dello spaccio.
Ma proprio per assicurare a se stessi e ai loro affiliati la certezza e l’impunità di un simile commercio, tendono a evitare ogni guerra e manifestazione eclatante di violenza. Meglio puntare sulla spartizione incruenta e condivisa dello spaccio in settori distinti di competenza, senza danneggiarsi e attirare l’attenzione delle forze investigative nonché i riflettori degli organi di informazione. A Roma domina una “pax malavitosa” a tutela del buon funzionamento degli affari.
Nel commercio di stupefacenti, le uniche gravi forme di violenza sono provocate dall’esigenza di punire una mancata consegna della merce commissionata o ritardi e inadempienze nel pagamento delle partite di cocaina. E soltanto quando un singolo soggetto vuole sottrarsi alle regole fissate nell’accordo tra i boss, si giunge alla decisione di eliminarlo in modo plateale. Non è casuale che negli ultimi dodici mesi siano stati compiuti solo due omicidi connessi alla criminalità, entrambi sul litorale.
La mappa elaborata da l’Espresso e pubblicata insieme ad un lungo articolo di Lirio Abbate nel dicembre 2012 che raccontava la spartizione territoriale del crimine a Roma
Le principali famiglie
Ma chi sono questi personaggi potenti e pericolosi, spesso inquisiti, arrestati, condannati, mai neutralizzati e sempre in grado di ritornare a spadroneggiare impunemente anche grazie all’assenza di misure preventive e cautelari incisive da parte dell’autorità giudiziaria?
Fortemente radicato nel terreno del narcotraffico sarebbe il clan guidato da Michele Senese, legato negli anni Settanta alla Nuova famiglia del boss di camorra Carmine Alfieri protagonista della sanguinosa faida con la Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo. Una guerra cui Senese è scampato per trasformarsi, una volta giunto a Roma, nel punto di riferimento dei gruppi criminali campani e laziali operanti nel traffico di stupefacenti.
La sua sarebbe una figura d’influenza nelle zone orientali e a sud-est della Capitale e del suo hinterland. Senese è stato catturato più volte ma, per via di alcune perizie psichiatriche che ne attestano incapace di intendere e volere, ha terminato il suo periodo di detenzione. Per cui oggi sarebbe conosciuto nell’ambiente con l’appellativo di «O pazzo». Certificati ai quali sommare l’ultima sentenza della Corte d’Appello di Roma che non ha riconosciuto la sussistenza a suo carico del reato associativo riducendo la condanna inflitta in primo grado da 17 ad 8 anni di detenzione. Regime che dal febbraio 2012 l’uomo ha iniziato a scontare in una casa di cura privata. Il che, a quanto risulterebbe da diversi filoni di indagine in corso in Procura, non gli avrebbe impedito di continuare ad esercitare la sua influenza in una zona ricca di palazzi residenziali e sedi di multinazionali. Finché le autorità giudiziarie non ne hanno ordinato il trasferimento nel penitenziario di Rebibbia. Ma è durato poco. Nell’estate dello scorso anno, infatti, il boss ha ottenuto gli arresti domiciliari, in virtù di attestati sanitari che stabilivano la sua incompatibilità con la prigione.
Altro elemento di spicco sarebbe la vasta famiglia dei Casamonica, i rom e sinti originari dell’Abruzzo insediati nel territorio capitolino da più di trent’anni. Forte di vincoli solidissimi e di una rete di un migliaio di persone, sarebbero riusciti come pochi altri a costruire un impero di proprietà e beni di lusso legando al traffico ramificato di stupefacenti attività come la ricettazione di macchine rubate, le truffe e i prestiti a tassi usurari. Grazie alla loro forza di intimidazione e a una fitta ragnatela di relazioni con gli esponenti della criminalità romana e delle organizzazioni mafiose tradizionali trapiantate nel Lazio, la loro area d’influenza andrebbe dalla fascia Sud della Capitale al confine con i Castelli, in una zona a elevata commercializzazione. Vivono in ville sfarzose e si muovono in auto di lusso, risultando ufficialmente poveri o nullatenenti.
Fino al gennaio del 2012, con l’arresto tra gli altri del loro leader Giuseppe, nessuna delle numerose operazioni di polizia dirette dagli inquirenti della Direzione investigativa antimafia aveva intaccato alla radice il potere dei Casamonica. Soltanto allora è stato contestato nei loro confronti il reato di associazione per delinquere. E, fattore singolare sul piano sociologico, tutte le vicende giudiziarie vedono sul banco degli imputati una forte componente femminile, da sempre investita di un ruolo nevralgico nei traffici illeciti del clan. Che adesso sarebbe guidato proprio dalla moglie del boss arrestato a inizio 2012.
Gli intrecci che si snodano sul litorale costiero della Città Eterna troverebbero il loro punto di riferimento nel gruppo diretto dai fratelli Carmine e Giuseppe Fasciani. Quella che sarebbe una figura di spicco all’interno del sodalizio, Carmine Fasciani, sarebbe riuscito a imporre la propria egemonia sulle spiagge di Roma. Una zona dove chi opera ha intrecciato rapporti intensi con le organizzazioni criminali attive in Spagna per l’importazione di stupefacenti. Una delle attività di reinvestimento delle enormi risorse sarebbe la creazione e gestione di prestigiosi locali della movida estiva di Ostia. Uno dei più frequentati e alla moda, il Village, fu sequestrato nel 2010, perché era stato pagato 780mila euro a fronte di una dichiarazione di soli 14mila. Ma dopo due anni di indagini e un processo sfociato nell’assoluzione è stato restituito a Carmine Fasciani. Alcuni mesi più tardi, però, gli sono stati confiscati altri beni. Provvedimento che ha rappresentato il preludio di una condanna non definitiva nel dicembre 2011 alla pena di 26 anni e 8 mesi di reclusione come capo e organizzatore, assieme al fratello, di un’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti. Attualmente l’uomo si trova in stato di detenzione preventiva in una struttura ospedaliera.
A “governare” il cuore e l’area Nord della Capitale, storicamente benestante e legata alle professioni, sarebbe una figura di maggiore spessore e più enigmatica. Si tratta di Massimo Carminati, milanese trapiantato nella Città eterna. Il suo curriculum, il suo profilo, il suo modus operandi, lo distinguono. Militante fin dagli anni Settanta nella sezione Eur del Movimento sociale italiano, poi aderente al terrorismo di estrema destra dei Nar, i Nuclei armati rivoluzionari fondati dai neofascisti Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, e infine killer per conto della banda della Magliana tra il 1977 e il 1978.
Un passato “nero” che ha portato più volte il suo nome nel registro degli indagati di diverse procure e spesso sul banco degli imputati in vari processi. Il più celebre ed eclatante dei quali è senza dubbio quello per l’omicidio del giornalista direttore dell’Osservatore politico Mino Pecorelli, avvenuto nel marzo del 1979. Una vicenda giudiziaria tormentata e memorabile, che sulla base delle tesi accusatorie dei magistrati di Perugia individuava in Massimo Carminati l’autore materiale di un delitto ordinato dai boss di Cosa nostra su ispirazione e richiesta di Giulio Andreotti al fine di togliere di scena un personaggio insidioso per la fortuna politica del leader democratico-cristiano.
A differenza dell’ex capo del governo, che dovette attendere il verdetto della Suprema corte per veder riconosciuta la propria innocenza, l’ex militante di estrema destra fu assolto già nel primo grado di giudizio per uno dei tanti insoluti misteri d’Italia. Più volte arrestato per decine di rapine e omicidi e mai condannato all’ergastolo, oggi Carminati non presenta conti aperti con la giustizia. E, nonostante l’appellativo di «Cecato» per la ferita all’occhio sinistro rimediata nel 1981 in uno scontro a fuoco con un carabiniere, ha scelto di darsi un’immagine più rassicurante e apparentemente più dimessa, ideale per mimetizzarsi nel turbinio quotidiano della Capitale. Non ama ostentare il lusso e la ricchezza, non veste in maniera appariscente, è misurato e gentile nei rapporti con gli altri. Una persona “normale” che tuttavia riesce a suscitare nell’universo malavitoso romano timore se non terrore.
Forse per questo è oggi più che mai avvolto dal rispetto e dalla deferenza dovuta a un uomo di potere, spietato con i nemici e i “trasgressori” dell’ordine criminale ma allo stesso tempo dotato di una grande capacità di risolvere problemi a chi gli chiede aiuto. È questo il segreto più profondo, psicologico, della sua forza. E imprenditori e i commercianti possono chiedere protezione, interventi per recuperare crediti non pagati, aiuti per reperire denaro liquido.