Nascere e morire, null'altro
Il primo pensiero che io ricordi: una figura d'uomo in controluce, con il cappello in testa, è china verso di me: è mio padre. Alla mia sinistra un'altra figura in controluce, mia madre, cerca di aiutarlo a sistemarmi addosso qualcosa, forse il cappottino. Sono molto soddisfatta, mi piace che si occupino di me. Penso:
"Ma loro esistono solo per me? Sono coscienti di esistere come mi sento Io? Oppure soltanto Io mi sento così, cosciente di esistere, e loro sono solo figure che esistono solo per Me?"
Sono in una piccolissima camera da letto, in un letto ad una piazza e mezza che occupa quasi tutta la larghezza della stanza; le coperte mi schiacciano, mi pesano addosso, voglio essere tolta da qui. Piango, ho capito che piangere fa sì che qualcuno venga. Non viene nessuno ed io mi lascio cadere pian piano dal letto, le coperte e le lenzuola mi trattengono un po', mi fasciano e mi depositano dolcemente a terra restando, in parte, sotto di me. Ora sono soddisfatta e mi riaddormento.
Mia madre cucina su di un fornello a carbone, tutto nero, è di ferro. Sul davanti ci sono due aperture quadrate nelle quali mamma mette il carbone che prende da una busta di carta. Per far prendere il fuoco usa una ventola dal manico di legno con attaccate tante piume scure. Quando il fuoco è bruciato resta una cenere grigia e a me piace mettere un cucchiaio da minestra in quella cenere e girare; a volte il cucchiaio si incastra e io mi arrabbio e strillo nel tentativo di tirarlo fuori.
Il fornello sta accanto ad una finestra dalla quale si vedono solo i tetti delle case ed il cielo. I coppi dei tetti sono di vari colori, nelle sfumature del marrone-rossiccio. A me piace guardare i tetti ed il cielo nel quale volano le rondini. Che strani giochi fanno: si rincorrono, tornano repentinamente indietro, per poi fuggire di nuovo. A volte danno anche una leggera malinconia, quando volano nel cielo rosato del tramonto, prima che scenda la sera, ed aumentano il loro verso stridulo come se fossero prese dall'angoscia per il buio che avanza.
Nel vano della finestra, sulla destra, c'è murato un uccello morto; la nicchia nella quale giace con le ali aperte ed il capo reclinato è chiusa da un vetro. La mamma con voce dolce dice che ce lo ha messo chi abitava questa soffitta prima di noi, e che doveva averlo amato tanto quell'uccello per creargli quella tomba.
"Lì lo poteva vedere sempre." Dice.
"Ma come fa a rimanere così. E' intatto."
"L'aria rimasta nella nicchia è poca per indurre la putrefazione. Doveva essere solo chi lo ha murato lì e l'uccello deve essere stata la sua unica compagnia. Prima che venissimo noi c'era la guerra. Chissà chi abitava quassù."
Questa cucina ha un caminetto piccolo piccolo. Non lo accendono mai. Non capisco perché visto che qui fa freddo. Però la Befana scende da lì perché i giocattoli li ho trovati proprio sul pavimento davanti al camino.
Alla camera dove dormiamo si accede mediante due scalini. E' piccolissima. C'è soltanto il letto dove dormiamo tutti e tre insieme, un piccolo armadio ad una sola anta con lo specchio rotto, un mobile a cassetti ed una sedia impagliata. L'armadio papà l'ha comperato così, con lo specchio già rotto, da una sua cugina che lo ospitò appena giunto a Roma dal paese. In fondo alla stanzetta c'è una finestra che dà su uno stretto cortile pieno di fili di ferro tesi da un muro all'altro per stendere i panni ad asciugare.
Questa stanza è l'unico angolo intimo per noi giacché la cucina è anche l'ingresso della soffitta e qui non ci abitiamo solo noi.
Dopo la nostra cucina c'è la cucina degli zii, a cui si accede con un gradino. La porta, a due ampie ante, è aperta solo quando loro ci sono. Di lato, a sinistra di questa grande porta, c'è un passaggio per chi abita oltre quella stanza e deve passare da lì.
La soffitta è fatta a scatola cinese: a sinistra della cucina degli zii c'è uno stanzone buio dove abita la madre di zio Gianni con suo marito. Lei si chiama Giuditta ma il marito non è il padre dello zio, perché Giuditta l'ha avuto senza marito lo zio Gianni. Oltre lo stanzone, anch'esso di passaggio, ci sono ancora altre stanze dove abitano due coppie. Tornano solo per dormire la sera ed escono presto la mattina. Sono educatissimi e molto calmi e silenziosi. Nel passare salutano sempre. Nella cucina della sorella di mia madre gli zii non ci sono quasi mai, perché gestiscono una trattoria. Sono tre anche loro ed io amo molto la mia cuginetta Lalla. Lei è più grande di me, è bella, vivace, allegra ed è più ricca di me, infatti lei possiede tanti giornalini che io non ho. Lei quando li legge me ne dà qualcuno ed io li guardo, mi piacciono le figure a colori, a volte le guardo capovolte, me lo dicono, io non so ancora leggere. Lalla ha anche gli album delle figurine: dei fiori, che è noioso, degli animali e quelli più belli di Cenerentola e di altre favole. E' bellissimo quando compera le bustine di figurine, l'emozione di sapere quali nuove figurine ci saranno, e se ci saranno dei doppioni. Poi Lalla ha tanti giocattoli, io voglio giocare con tutti, sono capricciosa, lei a volte non vuole, ma gli zii la sgridano e lei cede. Gli zii sono buoni: zio Gianni mi permette anche di fare la pipì per terra nella sua camera da letto; io gli chiedo il permesso: "Falla falla?" e lui mi dice sorridendo: "E falla un po'!"
La zia un giorno stava stirando e teneva una boccettina con dentro un liquido trasparente come l'acqua, sul tavolo accanto a lei. La boccettina era chiusa con un tappo di sughero sul quale era infilato uno spillone. La bottiglietta mi incuriosì ed io faticosamente allungai una mano e la presi. Appena l'ebbi aperta l'annusai e mi girò la testa. La zia mi prese con la mamma e mi portarono a respirare aria pura davanti alla finestra aperta sui tetti. Mi ripresi subito. Mi spiegarono che quello che avevo respirato era ammoniaca. Imparai che non si doveva fare.