Gli anni che ho mi hanno impigrita e ormai è raro che mi muova per ascoltare musica dal vivo, ma il piacere della lettura è sempre lì, a portata di mano.
I libri per me debbono essere rigorosamente cartacei.
Fra gli scrittori moderni è raro trovare qualcosa che mi piaccia e mi prenda totalmente. Ricorro allora ai classici che ho nella libreria di casa e che ho letto già, anche più volte, ma che, fortunatamente, non sempre la memoria ricorda interamente.
E scopro l'ovvio: io sono cambiata con l'esperienza e noto aspetti delle opere che rileggo che prima non avevo notato, anche in negativo. Lo stesso Pirandello, sempre una garanzia, in alcune novelle appare quasi inconsistente, mi chiedo quale sia il messaggio, data l'evanescenza del senso della storia raccontata.
In altre novelle ritrovo la sua grandezza.
Ma questo è normale, in quanto anche i Grandi della Letteratura non hanno sempre scritto cose eccelse. A volte è bastato che ne scrivessero una sola: basti pensare a Pasternak che vinse il Nobel per l'unico romanzo che scrisse: "Il dottor Zivago", anche se egli aveva scritto in prevalenza poesie.
Quello che caratterizza i Grandi in assoluto è la capacità di aver scritto sempre ad un livello alto ogni loro opera, in modo da lasciare una impronta unica alla loro produzione letteraria.
Ma esistono scrittori che hanno scritto un libro eccezionale e, quando cerchi di approfondire la loro conoscenza acquistandone altri, non ritrovi quella magica scrittura che ti ha affascinato.
Questo non toglie nulla al loro valore giacché, anche se non saranno annoverabili fra i Grandi della Letteratura, sono riusciti comunque a produrre un'opera che rimarrà, per quella felice alchimia che hanno creato sia pure per una sola volta.
Un esempio recente è stato per me Pennacchi, l'autore di "Canale Mussolini". Un libro che ha infastidito alcuni lettori per l'impianto narrativo che, invece, a me è piaciuto molto per la sua originalità: l'io narrante che risponde alle domande di un invisibile interlocutore.
Al di là dei contenuti della storia di un romanzo, indubbiamente sempre importanti, ci sono molti modi per scrivere e raccontare una vicenda. Sono sorte scuole di scrittura per insegnare le tecniche narrative. Io sono contraria e credo ancora nella spontaneità dell'ispirazione.
Lo scrittore può raccontare in prima persona, come un testimone invisibile che vede la storia dall'esterno, oppure può mascherarsi dentro uno dei personaggi e raccontare da quel punto di vista i fatti e le cose... Pennacchi in "Canale Mussolini" ha usato invece una chiave nuova, per me, nel raccontare, e questo fa del suo libro un'opera originalissima. Purtroppo non l'ho ritrovato in altre sue opere in cui la scrittura mi è risultata piatta e affatto originale. E' un esempio della variabilità dell'ispirazione.
Anche scrittori ritenuti grandi nel loro tempo, come Moravia, sono incorsi in questa caratteristica della scrittura, felice in alcune opere, insignificante in altre.
Per me Moravia ha scritto due libri importanti: "Gli Indifferenti" e "Agostino". Già nella "Noia" si perde nell'ossessione del sesso, pur conservando una scrittura di livello, ma nell' "Amore Coniugale" non sembra neppure Moravia, essendo il libro noioso e la scrittura non originale.
Ci sono poi scrittori che per tutta la vita hanno fatto altro e, forse per mancanza di tempo, si sono tenuti dentro tutto il nocciolo del romanziere che era in loro: uno di questi è Salvatore Satta, giurista, che ha scritto "Il giorno del giudizio". Lo scoprii per caso anni fa e rimasi profondamente colpita da questo scrittore sconosciuto. Ora vedo che l'hanno scoperto anche altri, tanto che su RAI 3, in una trasmissione radiofonica che si occupa da anni di libri, hanno dedicato una lettura a puntate del suo unico bellissimo romanzo.
Dopo questo excursus vengo alla mia recente scoperta di una nuova, originalissima scrittrice: Simonetta Agnello Hornby.
Anche qui ho acquistato due libri di questa scrittrice leggendo solo poche note biografiche su di lei per orientarmi. Penso che sapere dove è nato uno scrittore, in quale ambiente si è formato, già può orientare il mio interesse, giacché penso che sempre in ciò che si scrive c'è dell'autobiografismo, se non su vicende strettamente personali sicuramente su fatti, persone, personaggi di cui si è avuto eco nella vita reale. Altrimenti si scrive un racconto fantastico o di fantascienza. Per comodità narrativa, poi, si possono costruire situazioni inventate, ma sempre per presentare il nocciolo del messaggio che lo scrittore, ferito dalla realtà, vuole trasmettere agli altri.
La scrittrice Agnello Hornby è nata a Palermo. Dapprima pensavo fosse di madre inglese, da qui i due cognomi, in realtà, in una intervista da lei rilasciata tempo fa e da me letta mentre leggevo il primo dei due libri acquistati, "La Mennulara", per saperne di più su di lei e la "sua" Sicilia, ho scoperto che è integralmente siciliana e Hornby è il cognome di suo marito, da cui, peraltro, è divorziata da anni. Dunque tutto si spiega: ella vive da molti anni in Gran Bretagna, a Londra, ma il mondo che si porta dentro, quello degli anni della formazione, è il mondo siciliano.
Ne "La Mennulara" si parla di un tempo che inizia agli albori del secolo appena passato, e la protagonista nasce poverissima in Sicilia più o meno nell'epoca in cui è nata mia madre in un paesino rurale del centro Italia. La realtà che conosco dai racconti di mia madre è per certi versi simile alla realtà siciliana, anche se siamo, come dicono i protagonisti del libro riferendosi alla Penisola, in "Italia", intendendo "in Continente", come si esprimono ancora certi siciliani.
La segregazione sessuale della donna, la verginità intesa come "onore", esistevano anche nei luoghi dell'Italia Centrale a quei tempi. Ma la realtà siciliana appare in questo libro tragica e feroce, soprattutto verso chi nasceva povero.
"Mennulara" in dialetto vuol dire raccoglitrice di mandorle; facente parte, dunque, dei braccianti agricoli, privi di terra e di fortune, che hanno solo le loro braccia per procacciarsi da vivere, in un'epoca in cui il lavoro infantile era normale, senza ombra di previdenze e di garanzie. In alcuni tratti la descrizione di questa povertà estrema mi ha ricordato alcuni scritti di Giovanni Verga, in particolare forse una delle sue novelle lette nella mia gioventù, in cui due poveri giovani braccianti, che si amavano, perdono il frutto del loro amore per l'estrema fatica unita alla mancanza di cibo; lei incinta, in un giorno di duro lavoro, era riuscita a mangiare solo una cipolla e alla fine aveva abortito spontaneamente il bambino. Mentre leggevo ricordo che piangevo grosse lacrime. Ora non piango più, il troppo male visto e capito attenua ogni reazione, lasciando il passo solo a tristi riflessioni sulla sofferenza degli innocenti.
E innocente era la poco più che bambina Maria Rosalia Inzerillo, detta la "Mennulara", violentata dall'adolescente in foia figlio di un mafioso.
Un mafioso assassino ma con un "codice d'onore" della vecchia "mafiosità", che ritiene la difesa dell'integrità virginale una sua prerogativa di "giustizia". Questo personaggio sembra quasi inverosimile nei suoi distorti valori, ma poi mi è tornato in mente "Il Padrino" e di quando un povero artigiano, immigrato dall'Italia negli USA come il Capo Mafia a cui si rivolge per avere giustizia, chiede vendetta per sua figlia, violentata e sfregiata da bruti che, ovviamente, la pagheranno cara.
In questo caso, essendo il violentatore suo figlio, il mafioso prova onta del suo gesto, lo picchia e lo punisce allontanandolo dalla Sicilia con rammarico, non potendo più passargli la mano di Capo Mafia per il gesto disonorevole commesso. Egli rimedia come può all'offesa subita dalla piccola raccoglitrice di mandorle, raccomandandola ad una famiglia di notabili, gli Alfallipe, perché la prendano a servizio.
Questi Alfallipe si sono arricchiti amministrando i beni di un principe siciliano: siamo nell'epoca dei grandi latifondisti. Amministrando hanno sicuramente anche rubato. Ma la ricchezza nobilita tutto. Il destino della piccola violentata è migliorato dalla miseria estrema, ora mangia, lavora tutto il giorno ma ha un letto dove dormire e può aiutare la sua disastrata famiglia. Ma la sua schiavitù sessuale rimane, se non in una violenza fisica, in una violenza morale voluta dai costumi del tempo: il ricco che approfitta anche sessualmente del povero è una realtà accettata da tutti, madri e mogli dei ricchi, e dai poveri che sanno che debbono soggiacere al loro destino.
E qui mi torna in mente un altro scrittore siciliano, Vitaliano Brancati: mi sembra che in "Paolo il caldo" c'è la cruda espressione sulla povera serva di casa, che "era diventata la sputacchiera" di tutti i maschi della famiglia.
Trovo questa mentalità, siciliana in particolare, ma non solo, rivoltante. Questo approfittarsi della femmina povera, lavoratrice, che non viene rispettata nel suo duro lavoro, ma le si chiede di soggiacere alle laide voglie dei padroni, è di una miseria morale incomparabile.
La Mennulara, come è chiamata da tutti in paese, accetta il suo destino di puttana di casa in esclusiva per il "signorino" Alfallipe, fin da quando sono adolescenti e anche dopo, quando entrerà in casa una moglie da cui l'avvocato nullafacente Alfallipe avrà tre figli. Poi lui si distrarrà con tante signore sposate, ma anche vedove allegre, tornando ogni tanto a chiedere con discrezione e gentilezza i favori alla serva di casa.
Ma la Mennulara ha una prerogativa che la riscatta dal suo destino imposto e segnato da un mondo esecrabile e, per fortuna, oggi tramontato: è intelligente e molto, ed ha un carattere orgoglioso e fiero. Come tutte le persone intelligenti che non hanno potuto studiare ella impara dalla vita tutto, sia nella pratica che aiutata da componenti acculturati della famiglia che serve. Una persona intelligente non rimane mai ignorante del tutto, perché è curiosa e apprende conoscenza.
L'abilità nel gestire le campagne degli Alfallipe e negli affari fa si che gli inetti padroni le lascino sulle spalle tutto e lei sarà infaticabile. In paese, dato che non da confidenza a nessuno, si inventano leggende su di lei.
Quello che mi ha colpito della costruzione di questo romanzo è l'invenzione narrativa della scrittrice, molto originale, fondata sulle date e sul susseguirsi degli eventi lungo il progredire di un filo temporale che, però, lascia spazio a ritorni nel passato attraverso i racconti visti dal punto di vista di vari personaggi, anche di contorno, oltre ai protagonisti. Questo consente la visione della realtà da vari punti di vista e la verità si svela a poco a poco attraverso la visione dei fatti raccontata da questo e quel personaggio, minore o maggiore non importa, ognuno inconsapevolmente ha visto un pezzo della realtà, come in un mosaico le cui tessere alla fine comporranno il quadro finale.
Ora sto leggendo il secondo libro che ho acquistato della Agnello Hornby: "Il veleno dell'oleandro".
Anche qui abbiamo una famiglia di grandi proprietari terrieri inetti che lasciano gestire le loro proprietà ad una famiglia di gente modesta, e qui la "mennulara" della situazione è un giovane bisessuale e bellissimo: Bede. Qui l'ambiguità e la perversione vanno oltre la sensualità siciliana imposta dal ricco sul povero, come nel libro precedente, qui si tratta di una sensualità meno naturale e i rapporti si mischiano quasi in un incesto collettivo fra la famiglia dei ricchi e Bede.
Altra similitudine narrativa con il libro precedente è il sistema delle date che scorrono temporalmente, con i ritorni al passato narrati ora da un personaggio ora da un altro: ma in questo caso la rosa dei narratori è circoscritta ai pochi protagonisti della vicenda, e non abbiamo l'affresco ampio e capillare dei personaggi narranti de "La Mennulara".
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