Il pensiero che si accende nella mente di un bambino non concepisce la morte, ma solo la gioia del vivere.
In questo racconto non vogliamo tener conto dei bambini sfortunatissimi che nascono afflitti da tali malattie o malformazioni che incontrano immediatamente la sofferenza e quindi pure il concetto di fine, forse sentita anche come una liberazione da una vita avuta non interamente.
Ma non possiamo tener conto in questo racconto neppure di quei bambini sanissimi ma che si trovano in situazioni ambientali di inaudita e traumatica violenza, ai quali la morte viene imposta con visioni terribili e orrorifiche.
Non possiamo e non vogliamo perché altro dovrebbe essere il narrare e dovremmo raccontare di immenso dolore e sofferenza. Ma qui vogliamo riportare la storia di un bambino fortunato che vive traumi e malanni sopportabili e quindi egli "è vita" e non sa cosa è la morte, ma la incontrerà nel suo cammino come tutti, anche se non è mai per tutti uguale la sua scoperta, ad iniziare dai bambini sfortunati di cui abbiamo fatto cenno nell'incipit di questa novella.
Luigino si ritrovò vivo e felice, pieno di curiosità per tutto e non sapeva cosa fosse la morte.
Quando la incontrò per la prima volta aveva 4 anni e non ne fu traumatizzato perché forse non la capì fino in fondo. Era morta la nonna e l'avevano messa, con un fazzoletto bianco legato sotto il mento, dentro una spoglia cassa di legno, poggiata sul pavimento in semplice cemento grigio della grande cucina. Nessuno badava a lui e la vasta cucina, con il camino speciale dotato di sedili a nicchia laterali e un piccolo finestrino, sempre sporco di fuliggine, per guardare fuori stando seduti al calduccio, quel giorno era piena di gente che portava ceste di cibo che venivano posate poi sull'immenso tavolone, dove Luigino aveva visto per l'ultima volta la nonna intenta a preparare l'impasto per la pasta fatta in casa. Sua madre piangeva e i suoi zii pure e lui non capiva come in quello stato potessero mangiare tutta quella roba. Incustodito si avvicinò al viso della nonna per vederla da vicino: lui era poco più alto di quella cassa di legno grezzo e rimase intento a guardare il bel viso della nonna che sembrava dormisse. Nella sua mente bambina si affacciò allora il ricordo di qualche tempo prima, quando era ancora più piccolino e, in quella stessa casa, cercando qualcuno della famiglia si trovò ad attraversare la cucina vuota, salendo poi la breve scala di legno che portava ad alcune camere da letto e, sollevandosi sulla punta dei piedini, tirò il paletto che chiudeva la porta che si schiuse, mostrandogli la scena di due donne che reggevano i lembi di un lenzuolo, una dal capo ed una dai piedi, in cui era il corpo giallognolo di un vecchio di cui Luigino vide solo il capo reclinato con radi capelli bianchi e un braccio abbandonato e penzolante fuori da esso. Le donne dettero un grido vedendolo e: "Via, via, via!!!" Dissero richiudendo subitamente la porta sulla sua figuretta attonita, con il viso rivolto verso l'alto giacché, per entrare nella stanza, c'era ancora un altro gradino. Capì che quello doveva essere suo nonno, anche se nessuno gli aveva detto che era morto, o egli nella sua scarsa percezione della realtà, legata alla sua tenera età, l'aveva avvertito. Ma quel breve filmato rimase nella sua memoria fissandovisi ed egli capì cosa stavano facendo le pie donne secondo l'uso delle comunità contadine: stavano lavando il cadavere per poi vestirlo e prepararlo per l'ultimo saluto. Ne provò disgusto, per la ripugnanza che quel corpo giallognolo così abbandonato e nudo gli trasmise, insieme al pensiero, altrettanto ripugnante, dell'operazione pietosa che l'ufficio di quelle donne comportava.
Sua nonna invece, così vestita e quieta nel suo sonno apparente, non lo turbò.
Né lo turbò la visione della salma di zio Paoluccio, un vecchietto piccolo e magro, nonno di sue compagne di giochi, che vegliò in ginocchio insieme ad esse, come usava facessero anche i bambini più grandicelli in quei luoghi.
La morte come un sonno eterno, tranquillo, in quei visi composti di vecchi.
Ma crescendo Luigino preferiva vivere in città, in mezzo alla confusione e alla vita, tornare in quel mondo contadino, anche solo d'estate, gli dava un senso di scoramento e di paura, perché lì il cimitero era vicino al paesetto e ricordava alla vita che vi faticava che la sua fine ineluttabile era là, dentro quel campicello triste, con poche lapidi spoglie, molte croci e una cappellina con l'ossario in cui, gli avevano detto, esservi in una cassettina i resti di un altro suo nonno, morto prima che egli nascesse.
Quella vicinanza della morte con la vita lo opprimeva e avrebbe voluto tornare subito nella casa di città, dove il cimitero non si vedeva, era lontano, mentre le strade brulicavano di traffico, di gente e di vita. Una volta, accompagnato dalla mamma e da altre persone, ci era andato, ma non era triste come quello del paesino: c'erano statue che raccontavano la vita di quelli che erano dentro le tombe di marmo, piene di fiori. Una lo colpì: era la statua a grandezza naturale di una bambina che era morta a tredici anni per lupus; era una poetessa e aveva lasciato una poesia in dialetto romano che era un soffio di vita rimasta di lei: "...è n'sogno, n'illusione.. na' bolla de' sapone..".
Un giorno suo padre gli disse che un suo compaesano, certo Giulio di anni 25, era stato rimpatriato dal Canada dove era emigrato, presso una sorella che già viveva là, per cercare un lavoro che l'Italia non gli offriva.
"Ha un tumore, - disse - facendosi la barba una mattina si è scoperto un gonfiore sotto la mandibola. I medici non gli hanno detto la verità, l'hanno detta alla sorella e l'hanno rimpatriato perché malato e ha pochi mesi di vita, dicono 5".
Luigino aveva circa 15 anni e scoprì così che non solo il lupus uccideva poetesse tredicenni, ma anche il tumore.
Andò con il padre a trovare Giulio in ospedale: era un immenso stanzone, una corsia a tre file di letti, l'ospedale si chiamava Santo Spirito. Giulio gli strinse la mano sorridendo, Luigino pensò al fatto che egli era ignaro del suo breve destino e guardò con orrore l'enorme deformazione che il gonfiore, ormai esteso, aveva prodotto sotto la sua mandibola. Suo padre dopo avrebbe voluto che si lavasse la mano che aveva stretto quella del malato, ma Luigino, sia pure con timore, aveva stretto quella mano sapendo che certo quel male non si sarebbe trasmesso a lui per quella via, dato che i tumori non erano contagiosi. Ricordò quell'immagine di Giulio, sorridente nonostante il male, che seduto sul letto si piegava in avanti stendendo il braccio verso di lui per stringergli la mano in un saluto. Morì come da previsione medica dopo 5 mesi da quel momento.
Luigino in cuor suo avrebbe voluto che si sbagliassero almeno un po', ma purtroppo non fu così.
La morte si annunciò in un suo cugino di secondo grado: era bello, biondo e più piccolo di lui di due anni. Aveva iniziato proprio quell'anno l'università, Corso di Laurea in Fisica. Si erano visti d'estate nel natio paesello dei loro rispettivi genitori, primi cugini, e avevano parlato dei suoi studi appena intrapresi. Pochi mesi dopo seppe che gli avevano diagnosticato un tumore al midollo spinale. Le cure durarono due anni, con grande sofferenza. Uno zio di Luigino, che riportava sempre notizie di morte e di sofferenze in genere ogni volta che Luigi lo incontrava, disse che era andato a trovare Gabriele in ospedale e che gli aveva detto: "Datemi una pistola che mi sparo." Luigi ne fu colpito dolorosamente, immaginando la sofferenza del cugino e il suo desiderio di liberarsene con un gesto disperato, e desistette dall'intenzione di andare a fargli visita in ospedale.
Dopo due anni di sofferenze morì all'età di 21 anni.
Queste morti non gli recarono timore o angoscia che potesse capitare anche a lui, ma piuttosto lo scoramento che provava da bambino quando sentiva troppo vicino il cimiterino alla vita del paesello, la morte troppo vicina alla vita.
Gli capitò di vedere per la strada un morto appena investito: l'avevano coperto con un lenzuolo bianco e qualcuno gli disse che l'uomo stava leggendo il giornale, seduto su una panchina nel giardinetto spartitraffico, ed un'auto era piombata su di lui. Luigi risalì in auto tremando e con le lacrime agli occhi per la commozione, per quella morte inattesa di quell'uomo sconosciuto che se ne stava tranquillamente a leggere il giornale in quel lembo di verde strappato al traffico.
Se c'è qualcosa di altamente variabile è la morte. Essa è certa, ma si presenta in varie forme, modi, tempi e circostanze.
All'inizio della sua vita giovane ed adulta Luigi aveva capito questo. Non se ne fece spaventare. Comunque visse. La morte lo sfiorò due volte: una volta per aiutare un amico che stoltamente si era messo in pericolo e stava affogando e, pur sapendo di rischiare, Luigi pensò in un attimo che, fra morire pure lui e vedersi morire l'amico davanti agli occhi senza aiutarlo, preferiva morire con lui. Mentre lottava con l'acqua che voleva ingoiarlo pensò a suo padre e a sua madre, che sarebbero impazziti di dolore quando avessero appreso del suo affogamento. Questo pensiero gli dette dolore, più del suo morire.
Ma si salvò insieme all'amico irresponsabile ed incosciente.
La seconda volta finì in coma per una improvvisa malattia e quando si risvegliò e gli dissero che era stato per morire disse convinto: "Se questa è la morte è senza alcuna sofferenza, morire così è dolce." Fu il riprendersi dopo che gli fece capire quanto il suo corpo avesse sofferto avvicinandosi alla morte: era molto debole, la mente sveglia ma il corpo non si reggeva nemmeno in piedi e cadeva a terra come un palloncino sgonfio. La ripresa fu lenta e Luigi non capiva cosa fosse avvenuto al suo corpo debole, aveva capogiri e nausee. Il coma, sia pur breve e non profondo, aveva cancellato alcune cose che gli erano abituali, come se non fossero mai avvenute. Ne era sorpreso. A poco a poco però quei ricordi si ripristinarono, tornarono ed egli scoprì come i ricordi possano cancellarsi dalla memoria, come se qualcuno avesse usato un'invisibile gomma da cancellare su un foglio di scrittura.
La vita riprese e continuò. Luigi non aveva paura della morte, solo pensandovi provava una sottile malinconia mista ad una consapevole rassegnazione.
Quando ebbe figli cominciò a preoccuparsi della sua eventuale morte per loro, per la mancanza del suo sostegno protettivo nei loro confronti.
Morì all'improvviso un suo amico a 39 anni, lasciando figli piccoli. Un altro amico comune ebbe una crisi di paura della morte, come se dovesse ingoiare pure lui dato che aveva la stessa età. Luigi non capiva la ragione di quella angosciosa reazione emotiva, gli sembrò nevrotica. L'amico era morto in ospedale dove era stato ricoverato per problemi respiratori presentatisi all'improvviso mentre era in vacanza in Sila. L'avevano immediatamente soccorso quando era arrivata la crisi fatale, era stato intubato, ma i tentativi dei sanitari erano stati sconfitti. La morte aveva vinto nonostante fosse nelle mani di chi stava cercando di capire cosa avesse. Dopo l'autopsia dissero che aveva avuto tanti microemboli polmonari. Era forse allergico ed aveva respirato dei particolari pollini in montagna? No, era un frequentatore della montagna che amava più del mare, dunque non faceva immersioni, né fumava più da tempo. Ricostruirono che qualche tempo prima, dopo una nuotata in piscina, aveva avuto un dolore al petto. Niente di insopportabile e che era passato. Ipotizzarono che fosse stato un microinfarto che poi aveva forse portato quelle embolie...
Luigi tornò a vivere le morti degli anziani, come da bambino quando aveva assistito per la prima volta alla visione della morte senza saperne la causa: era la vecchiaia... dunque la fine ineluttabile della vita.
Suo padre veramente anziano non era: aveva 55 anni. Un ictus devastante gli dissero. Lui non lo vide giacché era morto nel sonno in una casa di campagna dove era da solo. Nessuno se ne era accorto e quando Luigi lo cercò gli dissero che era partito. Ma a Luigi non risultava, sapeva che suo padre era lì, e capì subito. Ordinò a distanza che aprissero la casa e così fecero: suo padre era morto da 10 giorni, come lui ricostruì in seguito interrogando chi l'aveva visto per ultimo. Fu una notte fra un mercoledì ed un giovedì, e la mattina dopo aveva dato appuntamento ad un contadino che doveva seminargli l'orto. Quello raccontò di essersi presentato la mattina del giovedì alle sette in punto come d'accordo, ma non vedendo il padre di Luigi pensò che fosse partito dimenticando il cancelletto aperto e glielo chiuse. Così, per dieci giorni, fino alla telefonata di Luigi a vicini conoscenti, dato che suo padre non aveva telefono, quella casa era stata la tomba di suo padre.
Poi la morte iniziò un bombardamento, parenti, amici... Ma anziani o vecchi.
"Si avvicina, - pensò - prima o poi colpirà anche me".
Sua suocera, 65 anni, era appena partita per le vacanze. Li chiamarono dalla casa estiva dicendo che stava male e di andare. Era già morta. Aveva fatto l'elettrocardiogramma di controllo due giorni prima di partire, soffriva di ipertensione arteriosa controllata da farmaci e voleva stare tranquilla. Tutto a posto le aveva detto il medico.
Quel giorno la figlia si sentì chiamare con voce strana, andò verso il bagno dove la madre stava controllando la lavatrice, la trovò, già con gli occhi che non la vedevano più, poggiata con le spalle al muro mentre scorreva lungo di esso fino a sedersi, la lingua fuori gonfia e bluastra. La figlia gridò: "Mamma, mamma!" Ma in pochi istanti, minuti forse, lei non c'era più. Fu un aneurisma dell'aorta.
Fu la volta poi di una parente di sua cognata: 65 anni, al ritorno dalla spesa della mattina fatta con suo marito, lo lascia un momento per un subitaneo bisogno di andare in bagno. Entra, alza la tavoletta, forse per un bisogno improvviso di vomitare, ma cade a terra con i denti serrati, morta per infarto.
Poi morti annunciate dai soliti tumori: sofferenze, cure, interventi chirurgici, poi morte comunque.
Tre fumatori, tre tumori polmonari con istologia diversa.
Uno, fumatore da quattro pacchetti di sigarette al giorno, ha un abbassamento di voce. Pensa ad un mal di gola, invece è un microcitoma che gli ha paralizzato un nervo della gola. Luigi apprende che quel tipo di tumore è inoperabile e che l'unico modo per rallentarne la micidiale corsa verso la morte è la devastante chemioterapia. L'amico muore a 60 anni.
Un altro ha avuto un tumore da fumo di altro tipo che, se preso in tempo, avrebbe potuto essere arrestato con la chirurgia coadiuvata dalla chemioterapia. Ma lui se ne è accorto solo quando ha iniziato a ridere senza motivo: il medico, consultato telefonicamente da un suo familiare, ha capito che si trattava di un sintomo delle metastasi cerebrali. Inutile ormai la chirurgia e di lì a poco è sopraggiunta la morte.
La terza è una donna che muore poco più che sessantenne. Qualche anno prima aveva espettorato del sangue. Un parente medico le evita un chirurgo, accademicamente titolato, ma macellaio per chi conosce quella professione, e la indirizza ad un chirurgo di cui si dice sniffi cocaina, ma indubbiamente bravo. Spostandole solo due costole, senza nessun taglio demolitivo, il chirurgo bravo la libera dal tumore legato al fumo. Ma 5 anni dopo il tumore torna e questa volta la ghermisce e la porta a morte.
Luigi ha accettato la morte per sé, ma non potrebbe mai accettarla per le persone che ama. Vive senza pensare a questa possibile realtà perché ne ha paura.
Ormai sa dell'immenso orrore della morte imposta da uomini ad altri uomini, in passato e nel presente che lui sta vivendo, e pensa che questo non smetterà mai, giacché non c'è progresso di civiltà che abbia potuto cambiare questa orribile attitudine dell'uomo ad uccidere: singoli ammazzamenti e stragi su grandi numeri, l'uomo dà la morte ad altri uomini.
Per questo Luigi, ormai non più Luigino, ha orrore dei cadaveri e delle religioni che, non accettando la morte, imbalsamano i cadaveri, mantenendoli quali reliquie. Ogni volta che gli è capitato di visitare Musei in cui erano esposte le mummie dell'Antico Egitto, egli ha provato un disgusto senza fine alla visione di quelle bende macchiate dai liquami, emessi da quei corpi, pur nella imbalsamazione.
Nella sua città, ad una mostra di antichi reperti provenienti dalla Cina, Luigi è rimasto fermo, con tanta altra gente, davanti ad una teca in cui, coperta da tanti pezzetti di avorio tenuti insieme dall'oro, giaceva la mummia di un uomo di potere dell'antica Cina. Il cadavere mummificato non era visibile se non nella forma umana interamente ricoperta da quella sontuosa veste d'avorio ed oro, ma ugualmente Luigi ha provato disprezzo e ripugnanza insieme al pensiero della superbia arrogante di quel morto, che aveva pensato di rendersi preziosamente eterno rivestendosi di una veste costosissima, il cui valore avrebbe potuto essere usato in modo migliore, ad esempio sfamando gli schiavi e i poveri del suo tempo, invece di rivestire la sua spoglia in disfacimento.
La madre di Luigi era una donna pia e spesso lo recava bambino con sé in Chiesa. Mentre la madre era intenta alla preghiera, Luigino girovagava per la Chiesa di turno, giacché sua madre amava frequentarne diverse, di cui la loro città era piena. Erano Chiese Cattoliche e in molte, negli altari laterali, mettevano nel sottoaltare delle teche illuminate in cui giaceva la salma imbalsamata di un santo; per fortuna non in tutti gli altari... E Luigino, camminando, girava con circospezione il capo di lato, sperando che nell'altare laterale ci fosse solo marmo anche sotto, ma se capitava che ci fosse una salma rigirava orripilato la testa e guardava avanti, verso l'altare principale.
Questo uso necroforo della religione della sua famiglia lo impauriva da piccolo e lo disgustava totalmente da grande. L'uso di reliquie, come un pezzo di osso del santo o il suo sangue, lo trovava ripugnante e per lui nulla aveva a che fare con un'idea soprannaturale e mistica di un eventuale Dio.
La superstizione, più che la religione, ispirava quei "credenti" che mostravano una manifesta necrofilia, facendo addirittura la fila per "ammirare" il cadavere imbalsamato di un vecchio, dichiarato dalla Chiesa Cattolica santo, acconciato con cera sul viso per nascondere e mistificare il disfacimento operato dalla morte.
Luigi pensava a quel cantante popolare romano che, amando la vita, pur essendo nato poverissimo ed avendo lottato con la sua bella voce per farsi strada, sapendo di dover morire perché il suo cuore cedeva, si dice che abbia detto: "Vita sei bella! Morte fai schifo!"
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A margine di questa novella voglio ricordare la piccola poetessa di cui ho riportato il monumento funebre nella foto. Si trova nel Cimitero Monumentale del Verano a Roma. Pubblico la sua storia nel prossimo post.
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