4 MARZO 2017
L’ultima esecuzione per crimini comuni in Italia
Avvenne 70 anni fa, quando Giovanni D'Ignoti, Francesco La Barbera e Giovanni Puleo furono fucilati per la strage di Villarbasse, in cui furono uccise dieci persone
In Italia la pena di morte per reati civili non esiste più dal 1948, mentre quella per reati militari è stata abolita solo nel 1994. Sia l’ultima esecuzione capitale per reati civili che quella per reati militari, però, furono eseguite nel 1947, a un giorno di distanza. Il 4 marzo furono fucilati Giovanni D’Ignoti, Francesco La Barbera e Giovanni Puleo, condannati per la cosiddetta “strage di Villarbasse” in cui furono uccise dieci persone. Il 5 marzo invece furono fucilati per collaborazionismo, sevizie e deportazione di migliaia di persone nei campi di sterminio tre ex membri della Guardia Nazionale Repubblicana del governo fascista: Aurelio Gallo, Emilio Battisti e Aldo Morelli. Quando fu eseguita la condanna a morte di D’Ignoti, La Barbera e Puleo, la Commissione per la Costituzione, cioè l’organo che realizzò il progetto dell’attuale Costituzione, aveva già deciso che la pena di morte sarebbe stata abrogata, ma l’allora presidente della Repubblica Enrico De Nicola decise di non graziare i tre uomini per l’efferatezza del loro crimine.
La strage di Villarbasse
Gli omicidi per cui D’Ignoti, La Barbera e Puleo furono condannati a morte avvennero il 20 novembre 1945 in una cascina di Villarbasse, un comune in provincia di Torino. I tre uomini commisero il crimine insieme a una quarta persona, Pietro Lala, che però fu ucciso in Sicilia prima di essere arrestato; tutti e quattro erano siciliani. Il piano iniziale prevedeva di rapinare l’avvocato Massimo Gianoli, proprietario della cascina: sapevano che teneva in casa grosse somme di denaro perché Lala aveva lavorato per lui come garzone. Per compiere la rapina D’Ignoti, La Barbera, Lala e Puleo sequestrarono Gianoli e Teresa Delfino, una sua dipendente che si occupava delle faccende domestiche, insieme ad altre nove persone: l’affittuario di Gianoli Antonio Ferrero e sua moglie Anna Varetto; il loro genero Renato Morra e suo figlio, un bambino di due anni; le dipendenti Rosa Martinoli e Fiorina Maffiotto, e i loro mariti Gregorio Doleatto e Domenico Rosso; il bracciante Marcello Gastaldi.
I quattro uomini si erano coperti le facce con dei fazzoletti ma Lala fu riconosciuto: per questo i rapinatori decisero di uccidere i sequestrati per non lasciare testimoni. Solo il bambino non fu ucciso, perché troppo piccolo per riconoscerli. Tutti gli altri furono colpiti più volte con dei bastoni e poi gettati ancora vivi in una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana che si trovava nel cortile della cascina. D’Ignoti, La Barbera, Lala e Puleo rubarono 200mila lire, un paio d’orecchini d’oro ed altri oggetti di scarso valore. Poi D’Ignoti tornò a Torino, dove viveva e lavorava come operaio alla Fiat, mentre gli altri tre andarono in Sicilia. I corpi delle persone uccise furono ritrovati otto giorni dopo gli omicidi, anche se le ricerche erano cominciate fin dal giorno successivo, perché il nipote di Ferrero era stato trovato solo in casa.
La polizia indagò presto sull’ex garzone Lala, che aveva usato il nome falso di Francesco Saporito con gli abitanti della cascina. Ciononostante si riuscì a risalire a D’Ignoti, in quanto torinese, che raccontò come si erano svolti i fatti. La sua confessione permise di arrestare anche La Barbera e Puleo. I tre uomini furono condannati a morte il 5 luglio 1946, e la condanna fu confermata dalla Corte di Cassazione il 29 novembre dello stesso anno. L’esecuzione avvenne alle 7.45 del 4 marzo 1947 al poligono di tiro delle Basse di Stura di Torino, che è tuttora aperto come centro per allenarsi nel tiro a segno. Tra le persone presenti all’esecuzione c’era anche il giornalista Giorgio Bocca.
Cosa dice la Costituzione sulla pena di morte
La pena di morte è vietata dall’articolo 27 della Costituzione, approvato dall’Assemblea Costituente il 15 aprile 1947, poco più di un mese dopo l’esecuzione di D’Ignoti, La Barbera e Puleo. Nella sua formulazione originale l’articolo diceva
«La responsabilità penale è personale.
L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra»
Entrò in vigore il 22 gennaio 1948 grazie a due decreti attuativi firmati da De Nicola. Il testo dell’articolo fu modificato nel 2007 e ora rispetta il protocollo n. 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (relativo all’abolizione della pena di morte in qualsiasi circostanza) che l’Italia ha ratificato nel 2008:
«La responsabilità penale è personale.
L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Non è ammessa la pena di morte».
Ecco un articolo di vero giornalismo, intendo il
giornalismo che fa informazione, chiara nell'esposizione e nei fatti.
Il giornalismo che dà qualcosa in più a chi legge e non un confuso
sbrodolamento di commenti strampalati e fuorvianti da quella che
deve essere la vera missione del giornalismo: informare,
informare, informare.
Sulla pena di morte ho già scritto e riporto qui i link che rimandano
ai post che ho pubblicato sull'argomento:
E c'è chi non vorrebbe nemmeno l'ergastolo! Nell'ordinamento
italiano esiste l'ergastolo ostativo, vuol dire privo della possibilità
di chiedere la Grazia al Presidente della Repubblica, ed è solo per
i casi di omicidi compiuti essendo legati alla
criminalità organizzata (Mafia, N'drangheta, Camorra
ecc.).
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