venerdì 1 febbraio 2019

Racconti lunghi e brevi di persone vere. "Il Maestro"

"Il Maestro"


La porta si aprì e mio padre apparve sulla soglia sorridente accompagnato dall'ennesimo sconosciuto.
Il suo carattere aperto al prossimo, per cui nutriva un affettuoso interesse, lo induceva ad interessarsi ai personaggi più disparati: non importa se fossero gli ultimi nella scala sociale, poteva essere anche colui che dagli altri era considerato lo scemo del villaggio, quello che amava in ciascuno e che sapeva cogliere era la specificità di ciascuno, l'umanità.
Si irrigidiva e giudicava i comportamenti falsi o immorali, oppure egoisti e irresponsabili, insomma tutti quelli che portavano danno agli altri, e allora non era affatto amichevole con costoro, ma la sua bonomia spariva lasciando il posto ad una seria e critica distanza.
La persona che recava in casa quel giorno era un omino all'apparenza più giovane di lui, sorridente.
"Lui è un maestro! Vedrai come è bravo." Mi disse presentandomelo.
Lo fece accomodare nella nostra piccola sala da pranzo e mia madre gli offrì qualcosa.
Non so dove mio padre l'avesse conosciuto: forse nella rosticceria del "Sor Achille", dove si vedeva con alcuni suoi conoscenti nelle ore libere dal lavoro, forse qualcuno glielo aveva presentato.
Il maestro aveva un'aria di persona dignitosamente vestita, modi semplici ed educati.
Subito si interessò a me e alle mie difficoltà con l'aritmetica.
Ero arrivato alla quinta elementare senza sapere ancora le tabelline.
"Lui ha brevettato un modo per imparare le tabelline giocando." Lo vantò mio padre sorridendo.
Il maestro tirò fuori quello che sembrava un normale mazzo di carte da gioco italiane, ma che si rivelò qualcosa di molto diverso. Sorridendo e giocando con me mi illustrava come imparare la tabellina. Non so dirvi come fu e quale era il metodo da lui inventato, né cosa avessero di diverso quelle carte da lui brevettate dalle carte con cui giocavo a "ruba mazzo" o ad "asso piglia tutto", so che, dopo aver giocato con lui che come un prestidigiatore mi insegnava con quel metodo la tabellina, io sapevo tutta la tabellina e non la dimenticai più.
Era riuscito, con il sorriso e nello spazio di mezz'ora, ad ottenere da me quello che le maestre, che si erano succedute nei cinque anni delle scuole elementari, non erano riuscite ad insegnarmi.
Ero stupefatto. Quel maestro mi aveva conquistato.
"Purtroppo, - disse mio padre con dispiaciuta ammirazione - lui non può insegnare nella scuola pubblica, perché ha superato l'età massima per partecipare al concorso pubblico."
Il maestro ascoltava serio quello che mio padre mi diceva.
Ero in quell'età in cui ogni adulto ti sembra una persona grande e senza età, con una distinzione per gli adulti molto giovani o per i vecchi già con le rughe... Dunque accettai quello che mio padre diceva senza farmi tante domande sull'età del maestro che, forse, aveva superato i 40 anni che la legge metteva allora come limite per accedere ai pubblici concorsi.
Egli aveva un viso buono: somigliava vagamente all'attuale Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, un misto di candore e di mansueta simpatia nell'espressione.

Egli mi indicò oltre il vetro della grande finestra, eravamo al quinto piano di un palazzo del centro, delle nuvole gonfie e bianche che si stagliavano nel cielo azzurro: "Guarda quella nuvola - mi disse - cosa ti sembra?"
La guardai e lui continuò: "Non ti sembra un elefante? Vedi? Ha la proboscide.. e le orecchione.. Con la fantasia, se le guardi bene, potrai trovare in ognuna una figura che ricorda qualcosa.."
"E' vero! - Dissi ravvisando proprio un elefante nella prima nuvola che mi indicava.
"Vedi? - Sorrise lui gentile. - "Ora già ha cambiato forma e non puoi più ravvisare in essa un elefante.. Ma in ciascuna nuvola, se guardi bene, potrai ravvisare una forma che ti ricorda qualcosa."
Il maestro se ne andò ed io non lo incontrai mai più, ma aveva lasciato in me un ricordo bello ed indelebile. In così poco tempo aveva catturato la mia indolente attenzione di bambino, mi aveva insegnato finalmente la tabellina ed aveva stimolato la mia fantasia.
Chiesi a mio padre di lui, in seguito; lui lo incontrava ancora di tanto in tanto nei tavoli esterni della rosticceria del Sor Achille, dove si sedevano vari amici e conoscenti a chiacchierare sotto i grandi platani, al riparo di siepi cresciute in cassette sorrette da portavasi in ferro battuto.
Peccato che non potesse insegnare nella Scuola pubblica lui che aveva quel dono.. Mi dispiacque davvero e chiesi a mio padre se poteva farlo almeno nella scuola privata: "Il diploma magistrale ce l'ha.. Certo in qualche modo dovrà pur vivere." Mi rispose serio.
Cominciai a distinguere qualcosa di quello che avrei scoperto a poco a poco vivendo: pensavo alla maestra Mencarelli che teneva una bacchetta lunga di legno sulla cattedra, con la quale ci picchiava sul palmo delle mani se solo ci giravamo a guardare fuori dalla finestra dell'aula un elicottero che volava basso: "Porgi la mano!" Diceva con voce acuta e puntigliosa e noi paurosi allungavamo il palmo alla punizione con timore..
Ogni fantasia veniva repressa. Era la Scuola Elementare dell'Italia negli anni 1950 ed oltre. 

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