mercoledì 4 dicembre 2019

Dalla Raccolta di Novelle "Mostri e Ritratti" pubblicata da UNIVERSITALIA 2011

Eliminare le persone nocive dalla propria vita non significa odiarle. Significa avere rispetto per sé stessi.
Sigmund Freud



I "vestiti" di Luciana (scritta nel 1979)
"Mia sorella veste come una principessa!"
Trovai la frase ed il compiacimento col quale veniva detta sgradevoli. Perché mai un giovane intelligente, brillante, solido nel carattere al punto da lavorare in fabbrica tutto il giorno e studiare per conseguire una laurea nelle ore libere, rubandole anche al sonno, dava tanta importanza ad un guardaroba? Era un valore superficiale che mal si attagliava ad una psicologia che non concedeva niente ai fronzoli: i soldi che non spendeva per i suoi studi li dava tutti alla madre che gli lasciava l'essenziale per le piccole spese ed il suo guardaroba era spoglio ed economicissimo.
Perché mai, dunque, essere orgogliosi dei vestiti della sorella?
Scoprii, in seguito, che si trattava di un valore riflesso: egli subiva, come chiunque, l'influenza dell'ambiente familiare.
Sua madre era stata una ragazza povera; orfana di padre, aveva dovuto accettare precocemente di imparare un mestiere che non le piaceva: la sarta. Da giovane aveva lavorato a lungo in una sartoria di Via Veneto,a Roma, dove andavano a servirsi signore ricche i cui capricci avevano inciso sul suo carattere meschino ed invidioso. Ore ed ore a cucire con le amiche chiacchierando sulle cose del loro piccolo mondo di ragazze povere e senza cultura, poi arrivavano le signore per le prove: se qualcosa non andava bene erano rimproveri da chi dava lavoro! La reazione era stata una voglia sfrenata di essere come le clienti: esseri fortunati e superiori che potevano avere molti vestiti! Questa voglia l'aveva riversata su sé stessa ed, in seguito, sull'unica figlia femmina.
Luciana aveva un carattere vile, incapace di ribellarsi; non era intelligentissima ma nemmeno una stupida, avrebbe potuto, con buoni stimoli, essere una persona con qualche interesse: ma la madre non aveva che valori effimeri e la sua protervia sciocca nell'imporglieli spense in lei qualunque scintilla.
I vestiti erano la cosa più importante, bisognava averne molti, cambiarsi continuamente. La cosa assumeva risvolti maniacali: acquistava continuamente stoffe e glieli cuciva, qualcuno lo comperavano già fatto, il gusto non doveva essere di Luciana ma quello della madre; la donna era convintissima di avere molto buongusto. Luciana, che peraltro era una bella ragazza, girava infagottata in abiti che avevano un'aria "demodé", che non la valorizzavano molto, anzi, spesso la invecchiavano. La madre sembrava non accorgersene: l'importante era cambiarsi, cambiarsi spesso!
Il padre, figura distante, quasi da sfondo, a volte di fronte  allo sperpero di danaro, e solo per quello, provava ad obiettare: "Ma a che servono tanti vestiti?"
"Un altro vestito?! Ma ne ha già l'armadio pieno!"
La madre allora si accigliava, si arrabbiava, rispondeva seccamente al marito che, avendo il carattere vile della figlia, finiva per tacere.
La donna viveva la sua vita senza pensare che sua figlia, anche se non lo imponeva, aveva un suo carattere, una sua personalità, dei gusti suoi.
A Luciana mancava la forza di affermarsi e subì tutta l'influenza dello strapotere materno: faceva tutto accompagnata dalla mamma, anche a vent'anni, così fino ai trenta; la storia finì con la morte della madre, solo allora poté iniziare ad essere se stessa, ma ormai era segnata da quella lunga oppressione e non sapeva ritrovarsi. Non sapeva più quali erano le cose che voleva lei e quelle che voleva sua madre: anche dopo morta continuava ad influenzarla.
Era così piena d'insicurezze e di paura di vivere che non aveva amicizie.
Quando la conobbi aveva ventuno anni, un bel visino su un corpo non particolarmente bello: cicciottella, non ben fatta, aveva però un'altezza discreta e, nell'insieme, era la classica "bella ragazza".
Era fidanzata con un giovane studente di architettura e subito il fidanzamento mi apparve strano. Fidanzati da cinque lunghi anni, lei conosceva i suoi genitori, li frequentava, usciva con loro la domenica anche per gite fuori città, ma questi genitori non si erano mai presentati nella casa di lei: sua madre e suo padre non li avevano mai visti.
La madre, quando pronunciava il nome del fidanzato, si sdilinquiva in un sorriso smielato, cambiava voce, quasi miagolava: "Giorgiooo!" Si sentiva tanto "suocera dell'architetto".
Quando parlava del fratello di costui, (che nessuno si era dato la pena di presentarle), e della di lui moglie, li chiamava: "I cognati di Luciana!" Con lo stesso tono compiaciuto. Era sconcertante come ignorasse volutamente quello che era un affronto, una mancanza di rispetto e di riguardo nei suoi confronti, in quelli del marito e della figlia stessa. Sembrava essere cieca di fronte alla totale mancanza di considerazione che i familiari di Giorgio dimostravano nei confronti della famiglia di Luciana.
Giorgio si era portato a spasso Luciana per tre anni senza sognarsi mai di entrare nella sua casa a salutare i suoi genitori.
La veniva a prendere sul portone e, dato che la famiglia di Luciana abitava al piano ammezzato, sarebbe bastato salire due gradini per varcare la porta del piccolo appartamento. Il padre non si sarebbe mai permesso di prendere una qualsiasi posizione  senza il consenso della moglie e la gioia di essere la "suocera dell'architetto" era tale che la madre non vedeva altri valori.
Dopo tre lunghi anni passati dietro i vetri, con la tendina scostata, a vedere la figlia salire sull'automobile di Giorgio e partire, la madre ebbe un rigurgito d'orgoglio:
  "Luciana dì a Giorgio che deve almeno entrare e presentarsi, non si può continuare così a far finta di niente!" Era troppo persino per lei! "O viene o lo lasci!"
Luciana obbedì. Non sapeva più nemmeno se era innamorata o meno di quel ragazzo che le aveva già dato tante piccole e grandi delusioni, ma sua madre si era impadronita di quella sua storia: la posizione sociale di Giorgio l'aveva colpita molto favorevolmente, la prossima laurea pure. Era questi figlio di un maggiore dell'esercito, sua madre era una possidente terriera. Questo era bastato. Luciana si era lasciata fagocitare passivamente dalla vanità di sua madre, la quale non si accorgeva della sua sofferenza che, peraltro, ella teneva celata. Non si rendeva conto che il non aver insistito perché Luciana terminasse gli studi, l'averla abbandonata al suo destino senza preoccuparsi di una sua, sia pur minima, preparazione culturale, aveva provocato nella ragazza degli insanabili complessi d'inferiorità.
Non si poneva il problema del divario culturale che poteva esserci fra sua figlia, che non aveva neppure conseguito la licenza della scuola media inferiore, ed il suo futuro, vagheggiato, genero architetto.
Nella sua pericolosa superficialità la donna non si poneva nemmeno il problema economico. Aveva mandato Luciana a lavorare a sedici anni. I soldi che guadagnava li prendeva lei. Ne rispendeva per Luciana, ma solo per le cose a cui teneva lei stessa: vestiti, capi per il "corredo da sposa", una pelliccia di cavallino.
Niente di più solido, magari risparmiando sui vestiti, sulla pelliccia e sulle lenzuola.
Sembrava non rendersi conto che i vestiti non potevano sostituire le "terre" della futura suocera di sua figlia, e nemmeno cercare dignitosamente di emularle. Nel suo delirio di vanità la signora sembrava non accorgersi che la sua figliola  abitava una casa in affitto, al "piano ammezzato", con finestre sulla strada, attraverso le quali chiunque, passando, poteva sbirciare. Sembrava non pensare che Luciana dormiva in uno sgabuzzino senza finestre, nel quale spesso, forse anche a causa di sue carenze nella pulizia, abitavano grossi scarafaggi. La signora, infatti, non amava molto pulire.
Si alzava presto perché non riusciva a dormire oltre una certa ora, si accendeva la prima sigaretta e, fumando, riordinava: alle nove aveva finito. L'ordine era solo esteriore ed apparente, naturalmente, giacché per pulire ci vuole ben altro impegno!
Pur essendo in ristrettezze economiche, tanto da dover mandare al lavoro i due figli più grandi, oltre a Luciana lavorava anche il fratello maggiore che studiava, per questo, con grande sacrificio, la signora aveva la donna di servizio ad ore fisse settimanali. La pulizia di una casa di cinque persone era ardua solo per una donna con poche ore settimanali a disposizione.
Quando conobbi la madre di Luciana questa, pur di avere la domestica solo per le pulizie della casa, peraltro molto piccola, l'aveva alleggerita dello stiro delle camicie: "Sai tre uomini in casa sono molte camicie!" Mi disse. Le mandava infatti in lavanderia che gliele restituiva linde, stirate e con un bel cartoncino a sostenere il colletto.
Le difficoltà economiche non avevano creato nessun senso del risparmio alla signora e nessuno spirito di sacrificio. Lei gestiva anche il denaro del figlio maggiore, al quale però non comperava che l'essenziale per coprirsi. Quando io lo conobbi il ragazzo girava senza cappotto anche se si era in febbraio e quell'anno a Roma aveva nevicato. La signora e sua figlia scherzarono molto su questo fatto e mi dissero che: "Giulio aveva i calori!" Conoscendo meglio la famiglia e l'intera situazione mi resi conto, invece, che Giulio era semplicemente un ragazzo che non badava a sé stesso per quanto attiene le cose pratiche, amando di più lo studio ed i libri che il proprio abbigliamento, ma a questo avrebbe dovuto pensare chi aveva cura di lui e dei suoi soldi. La signora tirò fuori dall'armadio un vecchio cappotto stile anni cinquanta:
"Vedi, - mi disse - il cappotto ce l'ha, è che non lo vuole mettere!"
Luciana si affannava a dar ragione alla madre e beffeggiava ironicamente il fratello. Io notavo con meraviglia e, allora, senza malizia, quello sciorinare avanti e indietro un capo non richiesto: notavo che il cappotto era lungo come voleva la moda anni cinquanta, era ampio, dietro aveva una lunga piega che lo percorreva tutto e che finiva in uno spacco, aveva un'altra piega trasversale sulle spalle ed era fornito di cintura. Peccato che eravamo negli anni sessanta e la moda era cambiata da un po’: ora si portavano cappottini diritti e corti, essenziali. Come non pensare che un ragazzo, che era giunto a venticinque anni senza avere una ragazza che l'amasse veramente, non poteva girare combinato in modo ridicolo? Giulio mi aveva confessato di avere molti complessi per questo, temeva di non essere abbastanza attraente perché portava gli occhiali e aveva iniziato a perdere i capelli.
Sua madre non si accorgeva di niente evidentemente. Era tutta tesa nella realizzazione di Luciana. Ma non vedeva al di là del suo piccolo mondo di ex-sartina.
Non pensò mai di lavorare lei, restando in casa, come facevano tante, pur di alleggerire i figli da un lavoro precoce che tagliava loro la possibilità di studiare.
Fece dei tentativi, ma senza convinzione, altrimenti avrebbe continuato.

*****

Luciana, dunque, pose a Giorgio il quesito:
"O vieni a casa a conoscere i miei genitori o ti lascio." Giorgio andò.
Grande fu la gioia della madre. Nessuna amarezza per come l'aveva ottenuto. 
Passarono altri anni e, nonostante Luciana facesse doni ai figli del fratello di Giorgio, anche molto costosi, nonostante si facesse in quattro per la famiglia di lui, nessuno di questi signori sentì il bisogno di varcare la soglia della casa di Luciana. Giorgio si era concesso con il ricatto e, a volte, si comportava ancora in modo strano: come quella volta che venne a prendere Luciana il giorno di Pasqua per condurla dai suoi a trascorrere insieme la festività ed al padre di lei, che era in finestra, non fece nemmeno un cenno di saluto, né sentì il bisogno di entrare per fare gli auguri. Il padre inghiottì l'umiliazione e nessuno si permise di fare una critica su Giorgio perché la madre era in "brodo di giuggiole" giacché Luciana era stata invitata dai "suoceri" il giorno di Pasqua.
Fu allora che mi innamorai del fratello di Luciana. Lei mi odiò subito e senza ragione apparente. Le ragioni erano però tutte dentro di lei, come un groviglio di serpi che un'educazione frustrante e priva di veri valori le aveva messo dentro ad una ad una.
Ero ricoverata in una clinica specializzata per le malattie dell'apparato digerente per delle ricerche: il fratello di Luciana venne a trovarmi portandola con sé, con l'evidente intento di cogliere l'occasione per farci conoscere.
Le aveva parlato di me come della donna di cui era innamorato e, dato che prima di me aveva avuto un'amara disillusione sentimentale, io ero per lui quel che si dice "la felicità".
Avevo soltanto diciotto anni e, pur avendo una famiglia composta da me e dai miei genitori, ero abbastanza infelice. Mia madre, da sempre, soffriva di disturbi psichici, mio padre sopportava molto male la malattia della moglie e, pur parlando molto con me per riempire la sua solitudine, era più preso a riversarmi addosso i suoi problemi che ad ascoltare i miei. Avevo dovuto così imparare molto presto a risolvere da sola tutti i miei dubbi, le incertezze dell'adolescenza, le inevitabili insicurezze.
Il fratello di Luciana aveva spezzato questa solitudine spirituale ed affettiva, attenuata solo da molte care amicizie, ed insieme eravamo felici.
Quel giorno Luciana indossava uno dei suoi tanti vestiti, di colore chiaro, a sacchetto, con una cinta che le segnava il largo punto di vita. Era cicciottella ed informe, anche grazie al vestito. Il viso però era molto grazioso, i capelli erano semplicemente ravviati all'indietro e fermati con un cerchietto. Era una ragazza dall'aspetto fine. Ci demmo la mano, ci sorridemmo, scambiammo qualche frase di circostanza, poi lei, forse per lasciarci soli, se ne andò sul balcone a parlare con altri degenti.
Non ci fu una corrente di simpatia tra noi durante quel primo incontro, ma nemmeno di antipatia, almeno da parte mia.
L'incontro successivo forse avvenne a casa sua quando ci fu la presentazione ufficiale alla madre ed al padre.
Prima di presentarmi a loro Giulio doveva aver molto parlato di me ed aveva mostrato anche delle mie foto. Me le aveva scattate lui sulla spiaggia di S. Severa dove andavamo in gita in primavera. Erano foto fatte con amore ed io ero molto fotogenica.
Ne aveva fatto degli ingrandimenti e li aveva fatti vedere ai suoi per soddisfare la loro curiosità, ma anche perché era orgoglioso di me. Il commento del padre era stato: "Ma come fa a stare con te?" Dicendo così, implicitamente, che mi vedeva molto carina e che non valutava molto suo figlio. A venticinque anni egli aveva già perso gran parte dei suoi capelli, ed era costretto a portare gli occhiali per la miopia. Ma per me era bellissimo e molto affascinante.
Volevo portare dei fiori a sua madre, com'è d'uso, ma lui me lo impedì dicendomi: 
"Sarebbe troppo formale". Obbedii pensando che certo lui, conoscendo i suoi, sapeva ciò che diceva.
Invece, anni dopo, mentre ero in visita in casa dei miei suoceri, la signora, come faceva spesso, ad un tratto disse alla figlia che le sedeva accanto:
"Adesso le dò una toccata!" Luciana rimase in silenzio ad aspettare l'azione che la madre le aveva preannunciata: apparentemente indifferente, ma in realtà ostile nei miei riguardi, senza imbarazzo per l'agire di sua madre, senza vergogna. La madre aspirò una voluttuosa boccata di fumo poi, socchiudendo gli occhi e guardandomi attraverso quelle fessure, disse:
"Clementina mi portò dei fiori quando venne la prima volta!" Questa frase non aveva nessun nesso logico con alcuna conversazione precedente. Era però abituale per la signora dire frasi con l'intento di provocarmi un dispiacere, non importa di quale natura. Tutto il resto, i nostri rapporti abituali, erano una convenzione alla quale era costretta. Ogni cosa che doveva fare, dire, ogni suo atteggiamento, erano per lei una faticosa costrizione, perché in realtà lei avrebbe voluto aggredirmi e basta, sempre. Non potendolo fare, perché non aveva nessun  motivo reale a giustificazione, si costringeva ad un'apparente  normalità, da cui uscivano rigurgiti mal repressi di un irrazionale odio sotterraneo.
Purtroppo ciò che diceva per colpirmi era da lei costruito sulla base della sua psicologia non della mia ed i risultati che otteneva non erano quelli che lei si prefiggeva: guardando le due donne sedute una accanto all'altra provai un senso di penosa vergogna per loro. Erano pur sempre la madre e la sorella dell'uomo che amavo. L'una continuava a fumare succhiando lentamente la sigaretta con uno stupido sorriso fra il maligno ed il soddisfatto, immaginando chissà quale rabbia quel paragone a mio sfavore doveva aver suscitato nel mio animo, l'altra restava in quel suo muto e vile atteggiamento gregario accanto alla madre senza neppur provare la maligna soddisfazione di lei.
Per Luciana io non avrei proprio dovuto esserci, esistere. Ella aveva fatto di me il suo contraltare, una persona che era il suo opposto, un simbolo di ciò che lei non era e, sotterraneamente, avrebbe voluto essere e la cui sola esistenza metteva in discussione la sua.
Non risposi, non c'era nulla da dire. L'unica cosa che avrei potuto rispondere, la verità, le avrebbe demolite:
"E' stato suo figlio a dirmi di non portarli, signora, io avrei voluto farlo, ma lui riteneva che a lei piacesse di più la semplicità di un incontro informale!"
Sarebbe sparito il sorriso maligno e la poveretta avrebbe scoperto che suo figlio non la conosceva o voleva vederla diversa da come in realtà era.
Il giorno che mi conobbe la signora ero senza un filo di trucco. Usavo truccarmi, anche se con parsimonia, ma credevo, anch'io rifacendomi ad un'immagine ideale, di piacere più così alla madre del promesso sposo.
Invece no: la madre mi disse, guardandomi con sufficienza, che a "loro" piacevano le ragazze truccate, anzi, aggiunse, "le donne di mondo". Avevo diciotto anni ed avevo un aspetto infantile, in aperto contrasto con l'aspetto che piaceva "a loro". Diceva sempre: "A noi piace così!" Parlando per tutti. Il marito e la figlia restavano in silenzio.
Mi accolse con l'eterna sigaretta in mano, non mi offrì niente di preparato con le sue mani. Fece arrivare un vassoio di gelati dal bar. Il padre, quando riusciva ad esprimere un po’ di sé, era piacevole: in quella circostanza, in certi suoi gesti gentili, rividi qualcosa del mio Giulio.
Ben presto iniziò nella mente della madre un'insana gelosia nei miei riguardi che si estrinsecava in invidia meschina anche per le cose più futili e sciocche. Faceva paragoni tra me e sua figlia, tutti a favore di quest'ultima naturalmente, come se questo avesse potuto cambiare in qualcosa la vita di Luciana. Cosa poteva aggiungere o togliere alla realtà dei fatti? La signora non se lo chiedeva davvero. La realtà per lei era manipolabile con le parole:
"Luciana non ha voluto studiare perché era la più grossa ed alta della classe e si vergognava a ripetere l'anno in una classe di compagni più piccoli." Mi informava.
Io non dicevo nulla. Avrei potuto dirle solo la verità: "Signora lei doveva insistere per il suo bene."
Ma lei diceva queste cose con aria di sfida, come a difendere le sue posizioni da chissà quali mie possibili critiche. Mi odiava perché io avevo terminato gli studi e pensavo di iscrivermi all'Università. Non sapeva come sistemare un paragone in favore della figlia in questo caso.
Allora diventava cattiva. Cercava di ferirmi parlandomi bene di Silvana, la precedente fidanzata di suo figlio. L'aveva lasciato, l'aveva fatto soffrire, non gli aveva voluto bene: e lei ne parlava bene alla moglie di suo figlio.
"Era una ragazzona!" - diceva, con l'espressione maligna di chi pensa di dare un dispiacere.
Purtroppo per lei io ero molto felice di essere com'ero, fragile e minuta, e non rientrava nei miei desideri essere "una ragazzona". Ma, continuando a far ragionare la gente con la sua testa, la signora credeva che essere alta e grossa fosse bellezza ambita. Continuava a dire, infatti, che sua figlia era bellissima a tutti; fatto imbarazzante anche per una bambina, figurarsi per una ragazza più che ventenne che, inoltre, di bello aveva solo il viso.
"Vestiva tutti vestiti di "butiche".” Continuava nel vantarmi le qualità di Silvana. Per lei doveva essere un valore assoluto se era più importante del fatto che Silvana non lavorava né studiava e, a ventitré anni, i vestiti di "boutique" se li faceva comperare dal padre. Né aveva nessuna importanza che non avesse terminato il liceo essendosi fatta espellere dalla scuola per oscuri motivi.
Né, tantomeno, che avesse avuto almeno tre amanti prima del suo ingenuo figlio. Quest'ultimo aspetto avrebbe potuto anche sfuggirle, ma tant'è: lei amava le donne di mondo!
*****

Conobbi Giorgio.
Era un bel giovane, alto, biondo, con gli occhi chiari, un po’ troppo in carne, dall'aspetto fine, cordiale, gentile.
Quando c'era lui Luciana cambiava: aveva modi affettati, non era spontanea, ed era sempre truccatissima e curatissima.
Nonostante si avesse, tutti, quasi la stessa età, non si usciva mai insieme.
Di questo distacco mi stupii. Un giorno ne chiesi a Giulio la ragione:
"Come mai non usciamo mai con tua sorella ed il suo fidanzato?"
"Ma, non so, lei è sempre stata un po’ per conto suo." Fu la risposta.
"Quando era più piccola me la portavo alle feste con i miei amici, ma lei non ha mai legato con loro." C'era un leggero imbarazzo in quella spiegazione.
Capii che lui stesso non ne sapeva la vera ragione e, prima che io glie lo avessi fatto notare, non si era mai soffermato su questa riflessione.
Persino Giorgio un giorno disse con estrema cordialità:
"Perché non andiamo al cinema insieme?"
Eravamo nella stanza da pranzo della casa dei genitori: il suo invito non fu raccolto da Giulio, né da Luciana, che restarono in un indifferente silenzio, poi parlarono d'altro. Giorgio guardò me e lessi sul suo viso il mio stesso incerto imbarazzo; incapace della stessa indifferenza risposi con un sorriso:
"Sì, mi piacerebbe!"
Ma gli altri sembravano interessati a tutt'altro e l'invito di Giorgio cadde nella distratta indifferenza della famiglia.
Quando Giorgio non c'era Luciana, quelle rare volte che mi parlava, mai direttamente, ma come ad un invisibile uditorio intorno a noi, senza guardarmi in faccia, ne parlava sfoggiando quello che doveva sembrarle un invidiabile futuro:
"Andremo a vivere in Africa! - Diceva, ed il tono era di grande vanità.
Oppure diceva:"Avremo figli tutti biondi!" Ma non c'era una vera gioia in lei nel dire questo, come se alle parole non corrispondesse un vero sentimento tenero di maternità e d'amore.
C'era uno sfoggio, era per gli altri, in quel caso per me, che parlava. Quei figli biondi immaginati non la intenerivano, non si sentiva assolutamente una gioia "sua" in questo immaginario futuro.

*****

Spesso la domenica Luciana andava con i "suoceri" nella località dove "la suocera" aveva le terre.
Giorgio, sovente, non si vedeva, l'aspettava fuori, in strada.
Una domenica che ero ospite a pranzo in casa loro, la madre mi informò, con il solito compiaciuto orgoglio, che Luciana andava a Viterbo con i "suoceri".
Luciana era di là che si preparava per la gita in campagna. Era inverno. Pronta per uscire, si affacciò alla porta della stanza da pranzo. La guardai con stupore: era truccatissima, i capelli tirati sulle tempie e fermati sulla nuca con delle mollette; indossava un elegante soprabito scuro ed intorno al collo aveva due poveri visoni i cui occhietti spenti facevano impressione, così le loro orecchiette e le bocche unite per fare un'unica macabra sciarpa.
Le zampette pencolavano inerti sul petto di Luciana e lei tesa, stranamente non felice o lieta, come avrebbe dovuto essere visto che si accingeva ad una gita, ci salutò, sempre guardando altrove.
La madre la guardò piena d'ammirazione.
Io pensai che era assurdo vestirsi così per una gita in campagna, ridicolo, ma non dissi nulla, naturalmente. La madre l'accompagnò alla porta. Il buio ingresso dava su uno stretto corridoio senza finestre: sulla destra si apriva la porta di una stanzetta le cui finestre davano su una stradetta secondaria sulla quale si affacciavano palazzoni con le facciate rovinate dal tempo e mille finestre brutte, con i panni stesi fuori ad asciugare.
Dopo questa porta c'era quella dell'unico bagno: il pavimento dalle vecchie mattonelle spezzate, graffiate, scolorite, era ricoperto di linoleum, come quello dell'ingresso, che il padre cambiava periodicamente di persona. Il bagno aveva una vasca tutta grigia e macchiata di ruggine ed un piccolo lavandino da cui partivano i tubi di scarico scoperti. C'era, inoltre, un soppalco che usavano come sgabuzzino, dato che quest'ultimo era stato adibito a "stanza" di Luciana. Si trovava di faccia alla porta d'ingresso e Luciana doveva dormire con la porta aperta per non soffocare. Accanto, quasi attaccata alla porta della sua "stanza", c'era la piccola cucina buia. Il fatto che la casa fosse al piano ammezzato costringeva la famiglia a tenere la luce accesa anche durante il mattino. Sulla sinistra del breve corridoio si aprivano, in successione, le due porte delle altre due uniche stanze le cui finestre davano sulla strada dove si apriva anche il portone del palazzo.
Luciana uscì e, dato che la porta della loro casa era proprio sul portone, fu subito in strada.
Dopo quella gita doveva essere accaduto qualcosa che era molto  dispiaciuto a Luciana, al punto che non era riuscita neanche a celarlo, come faceva di solito.
La madre, quando non mi punzecchiava con le sue malignità, stranamente, mi usava come confidente, così mi disse, con malcelata mortificazione, che i parenti di Giorgio avevano criticato l'abbigliamento di Luciana, non giudicandolo adatto alla circostanza. Mi chiesi come mai ciò che era evidente a chicchessia non fosse evidente per loro. Ma non dissi nulla. Se avessi detto loro la verità sarei stata aggredita: il sottile diaframma dei rapporti  convenzionali si sarebbe lacerato ed io sapevo che l'odio era sempre lì, tenuto a bada a stento. Quei momenti erano tregue dovute all'insicurezza momentanea in cui il giudizio negativo dei parenti di Giorgio la metteva.
Gli errori di valutazione si sommavano agli errori: questi parenti, tutto sommato, oltre alla posizione scorretta in cui si trovavano nei riguardi della fidanzata di Giorgio e della famiglia di lei, si permettevano anche, sia pure con ragione, di muoverle critiche grossolane. Avrebbero potuto tacere come avevo fatto io e, godendo del favore di Luciana, farle capire con garbo che sì, quell'insieme era molto carino, ma forse avrebbe avuto migliore collocazione in un'altra circostanza.

*****

Un giorno che ero in visita a casa dei miei suoceri vennero anche le cugine di Giulio e Luciana. Erano queste le classiche donne del popolino romano: grasse, sformate, ciarliere e cordiali; donne semplici nei modi e nell'animo, non avevano potuto studiare oltre le scuole elementari perché rimaste orfane in tenera età.
Volevano un gran bene alla madre di Luciana che chiamavano affettuosamente "zietta".
La "zietta" era la sorella fortunata della loro sfortunatissima madre. Dopo che questa era morta la "zietta" si era sempre molto preoccupata per loro, soprattutto era stata loro vicina con affettuosi consigli affinché imparassero un mestiere e trovassero un lavoro.
La famiglia della madre di Luciana aveva conosciuto in tempi lontani una certa agiatezza. Suo padre aveva una falegnameria, sua madre una lavanderia. Il padre, però, preferiva andare in giro con il suo calesse fuori porta, piuttosto che controllare il lavoro dei suoi operai, portandoci su una bella lavandaia, anch'essa sposata, lavorante nel negozio di sua moglie. Nella Roma di inizio secolo i bottegai stavano bene ed il marito della bella preferiva chiudere un occhio; non lo voleva chiudere, invece, l'altra cornuta, ma glielo chiuse il marito lasciandoci un bel timbro blù.
Questo gaudente morì molto presto per una malattia cardiaca e la moglie, rimasta sola con tre figlie, non seppe gestire le due botteghe e la famiglia, ben presto, finì in povertà. Una figlia morì di "spagnola", le altre due sposarono una un buono a nulla senza voglia di lavorare e l'altra il padre di Luciana, che seppe migliorare la sua posizione fino a diventare funzionario nella ditta dove lavorava. Qualifica della quale la signora andava orgogliosa, anche se lo stipendio non bastava alle sue mani bucate.
La sua povera sorella la riteneva una signora che non doveva sciuparsi le mani perché moglie di un impiegato e allora le lavava i panni lei, alternandosi alla vecchia madre. Poi le due donne morirono: prima la sorella, finita ancor giovane da un tumore, poi la madre di vecchiaia. Da quel momento i panni alla signora li lavò la domestica ad ore, poi la lavatrice. Lei però prese molto a cuore le orfanelle e cercò sempre di aiutarle. Loro contraccambiavano: guardavano i cuginetti come delle brave "baby-sitters" e facevano altri servizietti.
Quel giorno, dunque, erano in visita. Ormai i cuginetti erano adulti e loro erano diventate delle brave matrone sposate ad onesti operai.
Luciana con loro si sentiva sicura; a volte assumeva atteggiamenti da bambina viziata, bamboleggiava.
Si sedette sulle ginocchia di una delle cugine ed ella le chiese: "Allora, Luscianì, quanno è che c'hai l'esame?"
"Presto, a giugno!" Rispose lei con un fare fra lo sfrontato e l'imbarazzato.
L'imbarazzo era dovuto alla mia presenza. Io non capivo di cosa stessero parlando. Chiesi delucidazioni alla madre, visto che Luciana sfuggiva il mio sguardo. La signora, come sempre quando era insicura, fu stranamente mansueta e, con un sorrisetto imbarazzato, mi chiese a sua volta:
"Non sapevi che Luciana non aveva la terza media?" Intendendo con questo, che non aveva conseguito il diploma di scuola media inferiore. Scossi il capo.
"No? - continuò allora lei con un tono stranamente cortese - Eh! Sai, era grande e grossa, la più alta della classe, si vergognava e non dette l'esame di riparazione a settembre. L'avevano rimandata in cinque materie!" Concluse ridendo, quasi a cercare una comica comprensione per l'evidente asinaggine della figlia.
"Giorgio però non lo sa, - continuò - e non deve saperlo." Terminò guardando sua figlia che, pur ignorandomi volutamente, aveva seguito il nostro breve dialogo con attenzione, smettendo di farsi schermo delle innocenti cugine. La guardai anch'io e le chiesi: "Ma perché non deve saperlo?"
"Figurarsi, - rispose con sufficienza - lui sa che ho la terza media e già questo non gli va bene, se sapesse che non ho nemmeno quella...Addio!"
"Tu stai facendo tutto questo per lui, ti sei rimessa a studiare a ventuno anni e lui non lo deve sapere?" Era inutile insistere. "Che strano rapporto, - pensai - fatto di piccole menzogne meschine da una parte, di disistima dall'altra. E' triste."
Mi tornò in mente un episodio che risaliva al periodo del mio breve fidanzamento con il fratello e finalmente ne capii i risvolti psicologici, evidentemente patologici.
Ero stata invitata a pranzo dalla famiglia del mio futuro marito, era di domenica e sedevamo tutti intorno alla tavola: mangiando si cercava di fare conversazione. Luciana non parlava, non sorrideva, guardava solo nel piatto. La madre ed il padre parlavano poco: la madre soprattutto di cose legate ai cibi, il padre  avrebbe  voluto  sciogliersi  un  po’,  provava ad avviare qualche brandello di discorso, sorrideva, ma la moglie lo teneva sotto controllo come sempre, e lui ci si faceva tenere. Finiva che parlavamo Giulio ed io, allora, per mantenere vivo quel mortorio.
Finimmo per parlare di conoscenze che erano comuni solo a noi due e scherzando su una di queste, un tipo un po’ rozzo nei modi anche se fresco di laurea in ingegneria, usai la parola "pecora": era un termine molto in uso nel nostro gergo per definire persone non raffinate o incolte.
Fui distolta dalla conversazione da una voce rabbiosa che giungeva dal punto del tavolo dove, fino a quel momento, sedeva silenziosa Luciana:
"Una persona che tu chiami "pecora" può essere mille volte meglio di te!"
La guardai con profondo stupore. Guardai i genitori che, secondo la mia educazione e la mia logica, avrebbero dovuto richiamare la figlia al rispetto per l'ospite, senza parlare del rispetto per i sentimenti del fratello il quale, mortificato, taceva come i suoi genitori. Registrai un'anomalia ma, data la mia giovanissima età e la scarsa esperienza di vita, non ero in grado di analizzarla, come potei fare in seguito, molti anni dopo e con molti dati in più. L'anomalia era la mancata reazione di tutti i presenti ad un affronto assurdo e villano. Reagii io per tutti, sia per sbloccare la pesante atmosfera che si era creata intorno a quel desco domenicale, sia perché non ero abituata a non reagire alle assurdità ed agli affronti: 
"Perché mille volte meglio di me?" Chiesi con seria cortesia.
Luciana non osava guardarmi in faccia. Paonazza fino al viola fu comunque costretta a rispondermi:
"Come te..... Volevo dire....Può essere come te...." Cercò di ricusare riprendendosi un pò dall'accesso che l'aveva colta.

*****

Ora, di fronte a quel misero pezzo di carta che prendeva a ventuno anni frequentando una scuola serale, capivo.
Quel che non era giustificabile era che sfogasse i suoi complessi d'inferiorità sulla fidanzata del fratello maggiore, colpevole, ai suoi occhi, di avere una cultura superiore alla sua.

*****

Luciana aveva un fratello minore, di tre anni più giovane di lei. Con lui si sentiva sicura di sé perché era "il fratello piccolo" che lei aveva protetto quando, forse per pigrizia, all'asilo si faceva ancora la cacca addosso. Inoltre si sentiva accomunata a lui dalla difficoltà incontrata negli studi. Nicola, infatti, aveva dovuto essere iscritto ad una scuola privata per conseguire, dopo un paio di bocciature, uno stentato diploma di geometra.
Dal fratello maggiore aveva ricevuto di più: suggerimenti, consigli, libri da leggere, lezioni e piccoli doni. Ma lei si sentiva inferiore davanti a lui, non capiva tutto quel che diceva, era troppo colto ed intelligente per lei. Poco importa che fosse anche buono e generoso; l'altro non le dava nulla, però con lui si sentiva utile, era lei che s'illudeva di potergli dare consigli e questo la faceva sentire importante.
Aveva bisogno di sentirsi importante, non riusciva ad accettarsi, umilmente, per quello che era. Questo contrasto tra ciò che effettivamente era e ciò che avrebbe preteso di essere creava il suo squilibrio. Rifiutava chiunque volesse aprirle gli occhi su se stessa e odiava tutti quelli che, in qualche modo, possedevano ciò che avrebbe voluto per sé: intelligenza e cultura.
Le persone realmente intelligenti sono umili e curiose e più avanzano nella conoscenza più aumenta la loro umiltà.
Gli sciocchi supponenti hanno la velleità di "voler essere" senza fare nulla. Rifuggono le letture impegnative perché non ne sono attirati, preferendo libri di più facile accesso. Non sanno andare al fondo delle cose perché la loro debole intelligenza è incapace di vera analisi.
L'importante è accettarsi come si è. Luciana pretendeva di essere senza essere.
Quel che l'accomunava di più a Nicola era proprio il complesso d'inferiorità nei riguardi del fratello maggiore. Nicola era un buono e, anche se l'ex-sarta faceva continuamente, apertamente o velatamente, paragoni fra la "grande intelligenza" di Giulio e la scarsa intelligenza di Nicola, lui non se ne aveva a male, accettando questo come verità incontestabile. In realtà tutto è relativo e non v'è nulla di più irresponsabile, da parte di una madre ed anche da parte di un padre che omette di correggere la moglie, che il fare paragoni fra i figli esaltando uno e svilendo un altro.
Luciana, rosa dal suo interno veleno, cercava di fare di questo fratello minore un alleato contro il fratello più dotato. Nicola resisteva, ma quando si fidanzò con una donna senza qualità quel che non erano riuscite a fare la madre e la sorella riuscì benissimo a lei: Clementina.

*****

Nicola la fece conoscere  dapprima a Luciana. Né più e né meno di quello che aveva fatto Giulio con la sua.
Lei si sentì subito sicura con Clementina: era la ragazza del fratellino, adeguata a lui e la prese sotto la sua protezione, anche se Clementina non doveva essere protetta proprio da nulla.
Cercava, in realtà, un'altra alleata con cui continuare a combattere la sua guerra psicologica difensiva nei riguardi di Giulio e della sua compagna. Aggredire ciò che le dava insicurezza era la sua patologia non la sua cura. 
La cura avrebbe dovuto essere la serena accettazione di sé e degli altri. Incapace di arrivare a questa maturazione della personalità da sola, avrebbe dovuto essere aiutata da altri, magari competenti in materia di psiche.
Certo non era Clementina la sua cura.
Bruttina: pelle scura, magra ma non troppo, con un grosso naso gibboso la cui gobba non si poteva dire, per consolazione,  aristocratica, aveva labbra sottili, un brutto sorriso, occhi sporgenti, rotondi, il cui taglio era rivolto all'ingiù. Non intelligentissima ma furba sì, capì subito che Luciana voleva usarla per dare addosso alla moglie di Giulio da come gliene parlò, insistentemente, male. Non si vergognò di mostrare apertamente, anche di fronte a Giulio ed alla sua compagna, che si divertiva un mondo a sentire critiche e derisioni su di loro per ogni cosa che li riguardasse. Giulio era sconcertato ed umiliato da questo comportamento  scorretto della sua famiglia, anche perché la madre aveva seguito la figlia in quel fare disdicevole. Il padre, come al solito, non era che un burattino fra le due donne, incapace di qualsiasi apporto correttivo.

*****

Abbandonai ben presto la speranza di trovare un'amica in quella prossima parente, come avevo tristemente abbandonato l'illusione di trovare una seconda madre in una donna fatua, in perenne delirio di vanità, e la sorella che non avevo mai avuto in Luciana.
Clementina era un'opportunista e capì immediatamente che le conveniva assecondare Luciana e sua madre. Non si preoccupava certo di apparire meschina, perché lo era così integralmente da non rendersene nemmeno conto.
Aveva un'unica sorella e mi stupii di scoprire che sentiva nei suoi riguardi un sentimento di gelosia, di rivalità e di distanza.
Nella famiglia del fidanzato ebbe piacere, quindi, di essere vantata come la migliore in tutto anche se non lo era in niente.
Le due donne, madre e figlia, usavano la realtà come fosse plastilina e la forgiavano secondo i loro irrazionali umori: Clementina era più bella della moglie di Giulio, aveva cultura perché aveva studiato per quattro anni all'istituto magistrale, cantava bene anche se solo in falsetto e non sapeva fare una nota bassa, era simpatica, anche se non si poteva dire che avesse gli amici che aveva la moglie di Giulio, la quale era antipatica e asociale lo stesso, aveva grandi doti di casalinga anche se faceva spesso cenare il marito con la pizza comperata "a taglio" nel negozio vicino casa e, grande dote, quando cucinava, a casa loro si cenava alle sette di sera secondo l'uso del nord.
Mi veniva portata continuamente ad esempio per ogni cosa, non importa quale: il solo fatto che Clementina facesse così lo rendeva intrinsecamente giusto. La cosa fu estesa ai due fratelli naturalmente.
Quando poi facevano qualcosa che in noi era stato aspramente criticato, automaticamente quella cosa era giusta e, bisogna dire, diventava giusta anche se la facevamo noi.
Clementina era ipocrita naturalmente, ma come deliberatamente veniva ignorata la mancanza di riguardo nei loro confronti del fidanzato di Luciana, così veniva ignorata l'evidente opportunistica ipocrisia di Clementina.
Si possono raccontare a tal proposito vari piccoli aneddoti.  

*****

La madre era convinta di avere un grande buon gusto per il vestire. Clementina l'assecondava con continui sorrisi e atteggiamenti di approvazione; nella mia ingenuità di persona leale credevo che la pensasse realmente così, ma un giorno che parlavamo di questo argomento da sole lei fece un sorriso sprezzante e un segno evidente di noncuranza alzando una spalla ed emettendo un: "Tsé!". Rivelando così alla mia ingenuità la sua falsità. Bisogna dire che per essere una persona infida e  diffidente in certi  momenti con me  si rivelava. Probabilmente era così sicura del rapporto instaurato con le due sciagurate e, soprattutto, del mio scarso ascendente sulla famiglia di mio marito, che sapeva di non aver nulla da temere. Ed aveva ragione a pensarla così.

*****

La madre venne un giorno in visita nella mia casa di sposina, l'accompagnava come sempre Luciana: quando non lavorava e non stava con Giorgio era sempre con sua madre giacché non aveva né amici, né amiche. La madre però non si preoccupava della sua asocialità, ma ne presumeva una mia, insieme ad altrettanti miei presunti complessi e ne parlava anche. Io tacevo, tanto era evidente l'assurdità di ciò che diceva e per evitare un inevitabile alterco. La signora non voleva mai essere contraddetta: ogni contraddizione era da lei presa come un'offesa. Tutta la famiglia allora si irrigidiva e si adontava anche con il povero Giulio che era assolutamente incapace di reagire con la dovuta energia a tanta arrogante assurdità. Avevo molti amici anche se, a causa dell'impegno preso con il matrimonio, avevo dovuto trascurare qualche amicizia e qualcun'altra avevo dovuto chiuderla su richiesta di Giulio: alcune perché maschili, quindi per sua gelosia, altre, femminili, perché, a suo giudizio, ragazze dalla serietà opinabile. In realtà quelle mie amiche erano migliori di sua madre e di sua sorella, come si vedrà più avanti.
In casa mia Luciana manteneva un atteggiamento sostenuto: non parlava, non sorrideva, mantenendosi nel ruolo di "accompagnatrice" di sua madre. La signora, infatti, si muoveva solo se accompagnata in macchina: non amava prendere l'autobus.
Quel giorno la madre tirò fuori da una busta un paio di pantaloni corti da uomo:
"Li ho comperati al mercato per Giulio!" Sorrise compiaciuta.
Io li guardai: erano di cotonina, dozzinali, larghissimi, arricciati in vita rozzamente da un elastico, la stoffa portava disegnati, su un fondo bianco, dei grossi matitoni radi e sparsi.
Nemmeno un bambino sopra i due anni li avrebbe messi. Era ridicolo, ma dissi solo:
"Sono un po’ troppo larghi per Giulio."
Il fatto stesso che non li avessi accolti con gridolini di gioia le fece subito cambiare umore: si offese immediatamente, irragionevolmente, come sempre.
"Beh, io non me li riporto via! Regalali al mondezzaio se vuoi!"
"Va bene. - Le risposi io senza malizia. Allora non ne avevo.
Non capivo mai i doppi significati che la gente mette spesso in ciò che dice: la signora, poi, non diceva mai niente in maniera lineare. Il risultato fu anche migliore che se avessi capito: fu come se l'avessi schiaffeggiata. Risultato, se li riportò a casa e seppi poi che li aveva dati a Clementina per Nicola. Inutile dire che lei li aveva presi volentieri: ma Nicola non mise mai quei calzoni.
La furba le aveva capite subito e la sua natura ipocrita l'aiutava molto nel suo cinico assecondarle per sfruttarle.
Questo volevano e questo dava loro.
Aveva ragione lei.
Ma io non ero e non sono e non voglio essere così.
I rapporti che so costruire sono solo basati sulla sincerità, su un confronto leale, senza secondi fini. Se c'è del bene ben venga, sono pronta a darne anch'io, ma fare calcoli meschini no, mi sentirei misera.
Clementina non era così rigida e intransigente, non aveva problemi di autocritica, agiva, come tanti, secondo la sua convenienza, non gliene fregava niente di essere o di apparire agli altri meschina, né la sfiorava il sospetto di essere cinica!
Questi sono timori che riguardano chi non lo è e per questo si pone il problema!
Clementina pilotò molto bene il malleabile Nicola il quale ottenne molti vantaggi: lavorò solo sei mesi, tenne tutti i suoi soldi, poi si sposò a soli ventiquattro anni spesato di tutto.
Senza alcun ritegno, anzi con molta soddisfazione, le due sciagurate donne, accompagnate dalla sogghignante Clementina, andarono dalla sposa di Giulio, alla quale era stato detto con livore che Giulio non aveva il diritto di chiedere i soldi per sposarsi, pur avendo ventisei anni e sei anni di stipendi versati in famiglia, e le dissero:"Nicola non poteva partecipare alle spese del suo matrimonio perché doveva regalare il brillante a Clementina, voleva portarla in viaggio di nozze all'estero ed in aereo e comperarle subito la pelliccia!"
"Guarda, guarda - disse Luciana a completamento della scena - il "lapin" sembra un visone!"
Provai una grande tristezza per Giulio per l'ignobile famiglia che aveva. 
Studiando e lavorando tutto il giorno in fabbrica per aiutare la famiglia, che si lamentava continuamente per le difficoltà economiche, era finito fuori corso, pagava quindi solo quella che, allora, si chiamava "la ricognizione", una tassa ridotta, per un anno intero e che corrispondeva ad una cifra che suo fratello spendeva in un mese per fumare.
Eppure la madre un giorno, senza che io le avessi detto nulla (e come avrei potuto!) così mi apostrofò:
"Mica me lo dava tutto lo stipendio sai! Si teneva i soldi per le tasse e i libri dell'Università!"
Credo che le ricordai solo che i libri li comperava usati per risparmiare.

*****

Non potevo davvero immaginare che dietro Giulio, che io vedevo perfetto, ci potesse essere tanta mota.
Lui riteneva di dovermi sposare così precocemente per togliermi dalla mia famiglia di cui io mi lamentavo.
Lui non si lamentava solo perché rimuoveva ciò che aveva intorno, non accettando di ammetterlo a livello cosciente. Ma forse era lui che voleva salvarsi da un groviglio di egoismo, di ingiustizia e di stupidità quale era la sua famiglia.
Gli mancava il coraggio di fare una lucida analisi di sé e della sua situazione all'interno di quel nucleo familiare.
Io la mia analisi l'avevo fatta sulla mia famiglia ed anche spietata. Della sua non sapevo nulla e lo dovetti scoprire sulla mia pelle.
Credendola veramente indigente, quando lui mi volle regalare l'anello di fidanzamento, io rinunciai al bel rubino naturale che voleva mettermi all'anulare per uno meno costoso, frutto di sintesi di tanti piccoli rubini, residui di tagli di pietre più grosse, con questa motivazione:
"La differenza di prezzo che risparmi la metti nelle spese del matrimonio, così fai risparmiare i tuoi genitori."
Gran parte delle spese, infatti, le pagò lui con i suoi  ultimi stipendi. Quel che pagarono loro, pur avendo incamerato per anni i suoi soldi, mi fu rinfacciato umiliandolo. A me aveva pagato tutto mio padre, e la mia famiglia aveva sostenuto la gran parte delle spese.
Sposandosi Giulio portò con sé la sua macchina fotografica. Con grande generosità io regalai la mia a suo fratello perché la famiglia non rimanesse senza. Me l'aveva donata mio padre che, giustamente, ci rimase molto male e me lo disse: "Hai regalato a tuo cognato una cosa che ti avevo regalato io."
Inotre, nella mia egoistica incoscienza, non avevo nemmeno pensato che anche la mia famiglia restava senza una macchina fotografica. Mio padre sarebbe stato felice se io l'avessi tenuta con me, essendo un suo dono, ma che me ne privassi per beneficare la famiglia di mio marito di un servizio di cui anche la mia rimaneva priva, era veramente un atto di insensibilità da parte mia. 
Fui punita, giustamente, dalla loro assoluta mancanza di considerazione per il mio gesto. Come fu ignorata la rinuncia all'anello più caro ed il dono di un giradischi che la ditta Marzotto dette in omaggio allo sposo, per aver acquistato presso di loro le stoffe per gli abiti da cerimonia e da viaggio. Giulio recava con sé le poche cose che aveva acquistato con i suoi guadagni: oltre alla macchina fotografica c'era un giradischi, di cui aveva acquistato i pezzi e che poi aveva montato da solo. Rinunciai alla fonovaligia che la Marzotto donava allo sposo in favore di quella che credevo una famiglia in difficoltà.
Solo a poco a poco capii.

*****

Al ritorno dal viaggio di nozze, in cambio della generosità della famiglia del marito e dell'ostentato favore, soprattutto di Luciana, Clementina le portò in regalo una pupazzetta vestita da spagnola, a sua sorella, invece, un braccialetto d'oro. L'avessi fatto io i commenti velenosi e le smorfie di disprezzo non si sarebbero contati, ma dato che Clementina era per loro un partito preso, dissero: "Non sai quanto costano queste bambolette!" E Clementina, persino meravigliata di tanto favore, cercava, non senza imbarazzo, di spiegare che l'oro del bracciale della sorella era di una lega non pregiata!
Spiegazioni del tutto inutili! Lei non doveva spiegare niente, né giustificarsi di niente! Andava bene così!
Questa disparità di trattamento fra i suoi familiari e quelli del marito Clementina la mantenne sempre con impagabile coerenza, tanto che, nonostante la sua patologia psicologica, Luciana non sapeva più, negli anni, come ignorare questa indubitabile realtà.
L'unica cosa che poteva fare era non ammetterla mai con Giulio e sua moglie; avendo per anni ed anni favorito Nicola e la sua famiglia ed essendosi sfogata a parlar male di Giulio con loro, che l'ascoltavano con piacere, non poteva ammettere di aver sbagliato.
Per dieci lunghi anni quando non mangiavano dalla madre di lei erano sempre al desco della famiglia di Nicola. Anche questa veniva propagandata come una virtù a Giulio e famiglia. A me sembrava interesse:" Ma,- mi dicevo - i fatti mi diranno se sbaglio." Ormai ero solo spettatrice: testimone silenziosa, mi divertivo a "testarli" e, puntualmente, i test mi davano ragione.
Appena ebbero acquistato la casa, anche con loro prestiti, la domenica smisero di andare a mangiare da loro. 
Ora uscivano con amici! "Quando uno ha lavorato tutta la settimana si deve distrarre un po’!" Mi disse acidamente Luciana per giustificarli.
Quando faceva comodo continuarono ad usarla come mensa durante la settimana: pasti frettolosi per lui o per lei, per la prole, fra la scuola e l'ufficio. Luciana era anche più disponibile della madre. Arrivava a lasciare il suo ufficio frettolosamente, durante la pausa per il pranzo, per correre a casa e far trovare tutto a posto alla cognata, che usciva dal ministero alle due del pomeriggio. Purtroppo non poteva mangiare con lei perché alle due doveva rientrare in ufficio e restarci fino alle cinque pomeridiane, ma per fortuna c'era il padre di Giulio ad aspettare Clementina che, dopo mangiato, se ne andava a casa.  
Niente piatti da lavare, cucina da riordinare: tempo e fatica risparmiati, oltre ai soldi naturalmente! Eh, quelli si mettevano da parte! La voce vitto incideva pochissimo sul loro bilancio, così i detersivi e tutto il resto.
Continuarono, comunque, a farsi un mese di vacanza gratis, spesati di tutto e con la domestica, nella casa al mare che il padre aveva comperato con i soldi della liquidazione. La domestica era Luciana, naturalmente!

*****

Qualche anno prima anche Giulio aveva potuto acquistare una casa: con i soldi ereditati da suo suocero. Suo padre gli disse che si metteva nei guai. Questo fu il suo incoraggiamento. Giulio dovette firmare delle cambiali, a garanzia di soldi che sarebbero arrivati non appena espletate le formalità di una pratica riguardante un mutuo, acceso su un appartamento che sua moglie aveva ereditato dal padre. Da suo padre non ebbe niente. Eppure l'uomo aveva diversi milioni in banca, residuo della sua liquidazione in parte spesa per acquistare la casa al mare.
Molti colleghi del padre di Giulio avevano investito la liquidazione in una casa in città, abbandonando l'appartamento in affitto, sia pur scontato, della Società. Ben altro incremento di valore aveva avuto, invece, l'investimento in una casa al mare in una località economica vicina alla città. Ma la "signora" si sentiva al settimo cielo così! Peccato che poté godersi la casa per due o tre estati soltanto, perché morì. Il resto del tempo servì da vacanza alla furba Clementina.
Appena iniziava il caldo, tutti i fine settimana, più un mese intero di ferie, era là. Non si comperava neppure lo sciampo: usava quello di Luciana, che era felicissima di darglielo. Luciana faceva la spesa, cucinava, puliva, e le faceva da ancella: addirittura l'ho vista lavarle i piedi e farle la pedicure! E Clementina non si vergognava! Non si schermiva! Anzi, rideva divertita. 
Assistevo esterrefatta alle scene patologiche. Ormai ero una silenziosa spettatrice di scene penose, miserevoli, in cui le due psicologie si intersecavano in un gioco che voleva essere contro la moglie di Giulio, Giulio stesso, poi i figli di Giulio, un gioco in cui il padre-nonno faceva la sua miserevole figura di pupazzo nelle mani della folle Luciana che, non si rendeva conto, scavava sempre più il vuoto intorno a sé. Nulla le avrebbe mai dato quella donnetta meschina senza qualità, nulla quel suo fratello minore immiserito dalla moglie e ormai succube, nel quale erano scomparse, soffocate dalla volontà prepotente della moglie, le buone intenzioni giovanili.
La casa di Giulio, dunque, fu criticata anche. Nessuna gioia o soddisfazione da parte dei genitori che se la fosse comperata: "Che brutto quartiere!" Disse il padre ridendo scioccamente. "Io non me la sarei mai comperata qui!"
"Qui avete un lampione che sbatte la sua luce sul vostro balcone." Sognò malignamente Luciana. Il balcone di sera era al buio e se si voleva la luce bisognava accendere quella sopra la porta-finestra della cucina.
La madre fece di più, con una smorfia triste disse: "Nicola una casa ancora non ce l'ha!"
Avrebbe dovuto tacere e ringraziare il cielo segretamente perché un suo figlio, nonostante lei non avesse costruito niente perché totalmente incapace di sacrifici e di economie, aveva una bella casa, grande, con i doppi servizi, grazie alle economie di altri e, terribile, alla morte. No, lei si dispiaceva che non avesse la stessa cosa Nicola!  Se io avessi avuto meno scrupoli dovuti all'educazione le avrei dovuto dire:" Allora speriamo che il padre di Clementina muoia presto!" Sarebbe stato un bel colpo per il suo superficiale cervelletto! Chissà se l'avesse indotta a qualche riflessione? Ma forse si sarebbe soltanto stoltamente e scioccamente offesa!
Morì senza poter avere la gioia di assistere all'acquisto della casa dei prediletti! Non poté pavoneggiarsi, compiacersi, fare paragoni a sfavore di Giulio.
Cercò di rimediare la povera Luciana: "Che bel quartiere! Che bella posizione!" Era in una fossa, vi si accedeva, infatti, per una strada in ripida discesa.
"Non ha due bagni ma ha tante nicchie!" Avrei dovuto chiederle ragione dell'incongruo paragone per farla scoprire ancor di più e metterla di fronte a sé stessa:"Perché, a chi pensi quando dici "due bagni"?" Invece tacqui, come sempre. Raccontai però, perché, con gli anni, veniva sempre meno in me il rispetto. Loro non mi avevano rispettato mai, né avevano rispettato il ragazzo che amavo e che avevo sposato. Stupidamente si scoprivano a parlar male di Giulio e della sua famiglia non solo con Clementina e i suoi parenti, ma anche con i vicini della casa al mare, che vedevano solo per un breve periodo dell'anno! Io avevo mantenuto, nonostante ciò, ostinatamente, una forma di inutile rispetto. Per me stessa probabilmente. Non mi sarei piaciuta a comportarmi come loro. Ma gli anni passavano ed il coacervo di fatti, tutti dello stesso tenore, era tale che a poco a poco la mia correttezza non aveva potuto più fare argine al disgusto che erano riusciti a suscitarmi.
Raccontai, dunque, ridendo, l'incongruo paragone ad una mia amica dall'umorismo un po’ greve:"Non hanno due bagni ma hanno tante nicchie? E che pisciano nelle nicchie?!" Stigmatizzò così, con una gran risata, l'assurdità del paragone.
Tutto era tirato per i capelli a voler dimostrare la realtà che le piaceva di più. Nonostante tutto questo, Luciana amava ripetere con sarcasmo che Giulio "era il figlio preferito della madre": "Lui è il preferito!" Avrei dovuto dirle: "Ma di chi??!!"
E Giulio? Lui si dispiaceva, soffriva, si sentiva umiliato quando io sottolineavo questo o quel fatto, ma cercava di scivolarci su, di non pensarci, insomma rimuoveva, troppo debole per affrontare qualcosa che, diceva, gli riusciva "inspiegabile"!
Di cose "inspiegabili" ce ne erano tante in quella famiglia.
La religiosità della "signora", ad esempio. Andava rigorosamente a messa, forse si comunicava anche, credeva in Dio, poi, però, si piantava davanti alla sua nuora non ancora ventenne e, tenendo la sigaretta fra le dita  storte, con le unghie sporche ma dipinte, aspirando voluttuosamente una boccata di fumo, con un sorriso equivoco, le diceva:
"Mio marito ed io ci siamo "divertiti" per anni durante il nostro fidanzamento, senza bisogno di entrare lì!" E con l'altra mano scivolata lungo il fianco accennava ad un gesto verso il mio pube, sopra al quale c'era il rigonfiamento della pancia che conteneva, già da prima della cerimonia religiosa del matrimonio, la nostra prima bambina.
Avrei voluto dirle che l'amore non è "divertirsi", ma ero troppo annientata dalla sua volgarità per poterle rispondere.
La signora aveva un'amica di gioventù che si chiamava Pia. Questa Pia aveva una figlia che si era sposata solo con il rito civile: "Pia si vergogna, - andava dicendo con aria fintamente triste, in realtà gonfia di succoso compiacimento - si vergogna tanto, - continuava con voce piagnucolosa recitando da guitta - porta i fiori alla Madonna e prega tanto." Terminò con un sospiro.
"Ma di cosa deve vergognarsi?" - Le chiesi stupita. "Un matrimonio civile è identico ad un matrimonio religioso, la differenza sta solo in una scelta fatta da chi crede che ci sia Dio e da chi non ci crede." Si seccò subito. Da una come me non poteva avere la soddisfazione di commiserare, spettegolando, qualcuno.
Dunque, per la signora era lecito fare ogni sorta di porcherie sessuali "divertendosi", giocando con il piacere, anche senza essere andati davanti al prete, ma era da cretini concepire un bambino e vergognoso sposarsi "non in chiesa". Una splendida morale davvero! Chiara, coerente! Infatti, sua figlia, allevata da questa madre, allacciò una relazione con un uomo sposato che lavorava nel suo stesso ufficio e di cui conosceva la moglie: una gentile e colta signora che aveva come unico svantaggio su di lei il fatto che era nata, come il marito, vent'anni prima di Luciana.
La madre, appena appresa la notizia, che già in cuor suo sospettava, cominciò a vomitare insieme con la figlia e nella casa mal illuminata scoppiò il dramma.
La sua preoccupazione più grande fu che non si sapesse nulla fuori! La gente non doveva sapere!
Squallidamente si preoccupò che io, come avrebbe fatto lei in una ugual circostanza che mi riguardasse, lo dicessi alle mie amiche. Io non lo avevo detto neppure ai miei genitori, ragionando, ingenuamente, che i fatti privati della sorella di mio marito non dovevano riguardarli e, l'andarglielo a riferire, sarebbe stata una mancanza di rispetto per la famiglia ed un inutile pettegolezzo!
Clementina, invece, si precipitò a dirlo alla madre, la quale si attaccò al telefono e chiamò l'ex-sarta e, con frasi ipocrite, la commiserò e l'invitò ad andare a casa sua per "parlarne insieme". La "signora", umiliata, non solo non si seccò dell'indiscrezione di Clementina, ma, sia pure arrossendo, andò.
Di certo la signora Tuti fra un pasticcino ed un sorso di thè ascoltò con finta contrizione i suoi sospiri ed assaporò la sua umiliazione.
Come lontani anni luce dal mio modo di sentire erano i sentimenti di queste persone e quanto inutile il mio "dare perle ai porci": ghiande ci volevano, ghiande! Clementina e famiglia lo avevano capito.

*****

Dopo anni di umiliazioni Luciana aveva lasciato Giorgio. La madre era costernata. Vedeva sfumare i suoi sogni di vanità! A poco, a poco Luciana raccontò episodi sconcertanti in cui si evidenziava, con fatti ancora più pesanti, l'assoluta mancanza di considerazione della famiglia di Giorgio nei riguardi di quella di Luciana. Invece di indignarsi e dire:" Hai fatto bene figlia mia!", il padre e la madre abbozzarono sorrisetti imbarazzati e fecero commenti tutt'altro che di fuoco:
"Beh, certo lui è un maggiore..."
"Eh, certo noi siamo quelli che siamo.....La nostra casa certo è quella che è....." Risatina imbarazzata.
Orgoglio? Dignità? Amor proprio? Cosa sono?
Era lampante, quindi, che gli episodi umilianti ai quali io avevo assistito li trovavano assolutamente coscienti. Non è che non vedessero la realtà: fingevano di non vederla!

*****

Il maturo amante di Luciana fece sapere, tramite la pazzerella, che "egli era a disposizione per qualunque chiarimento".
In Italia non era ancora stata approvata la legge sul divorzio. Anzi, non era stata fatta nemmeno la bozza della legge, che venne molto tempo dopo.
Comunque il maturo amante di Luciana continuava a vivere in famiglia. La moglie, informata dal marito del suo innamoramento per una donna di vent'anni più giovane, gli disse dignitosamente: "Vai dall'avvocato, cosa aspetti?"
Luciana si sentiva l'eroina di uno dei romanzi che costituivano le sue uniche letture.
Invitata a riflettere da me e da Giulio, assunse un'aria di superiorità e rispose: "Voi non potete capire. Lui è stato subito mio! Ha detto alla moglie: - Questa è la tua stanza e quella è la mia!"
Si sentiva di molto superiore a quella donna, madre di due sfortunati ragazzini, di cui uno addirittura portatore di handicap; infatti arrivava anche a prenderla in giro, come era suo costume fare:" Ho saputo che è andata ad una festa indossando una gonna "midi"!" Raccontava ridendo.
Io pensavo: "Cerca di tenersi su e di non lasciarsi andare perché ha due figli da crescere." Ma non glielo dicevo naturalmente, fedele alla consegna del silenzio. Ogni tentativo di comunicare il mio modo di pensare a quelle donne era finito sempre in un'aggressione volgare nei miei riguardi.
Il padre di Luciana piangeva. Un giorno, in mia presenza, parlando con la figlia della sua relazione adulterina, ad un tratto sorrise con l'aria di chi fa una rivelazione e disse:
"Ma lo sai che è successo anche a tua madre?"
Lei non fece una piega, forse perché c'ero io: nessuno stupore, né smarrimento, né imbarazzo. Nessuna ulteriore domanda sull'argomento. Il padre stava seduto, con le braccia incrociate sul petto, il capo chino verso la spalla e guardava sua figlia di sotto in sù: un tremito nervoso gli scuoteva le gambe e, a poco a poco, il sorriso sfumò in una specie di smorfia. Avrebbe detto di più se sua figlia gli avesse posto delle domande, si vedeva che se lo aspettava anche, quasi per liberarsi, ma lei non disse una parola.
Ero sconvolta. Chiesi a mia suocera cosa ci fosse di vero in ciò che, mio malgrado, avevo appreso. Eravamo da sole, sua figlia non c'era, non so, ma lo spero per loro, se anche lei glielo chiese: "Fu durante uno dei periodi in cui io e mio marito, durante il lungo fidanzamento, ci siamo lasciati. Ci siamo lasciati molte volte, quella volta lì mi misi con uno che era sposato. Ma io non lo sapevo! Lo seppi dopo qualche mese, allora lo andai a cercare e lo presi per la cravatta e gli dissi: Per chi mi hai preso?"
"E lui?"
"...E lui cominciò con le solite scuse: - Mia moglie è esaurita...Così...Lo lasciai."
Ed io che credevo giusto il giudizio negativo su di me perché avevo fatto l'amore con Giulio prima di sposarci, addebitandolo ad una morale cattolica, come l'avevano a casa mia. Eppure né mio padre, che pure era il padre di quell'unica figlia, minorenne per di più, né mia madre, cattolicissima, avevano mai detto una parola irrispettosa o astiosa sull'argomento a Giulio! Perché avevano visto che ci amavamo profondamente.

*****

Nicola e Clementina, al solito, cercavano di trarre profitto dalla situazione: loro non si pronunciavano, non davano consigli, non cercavano di far ragionare Luciana per il suo bene, giacché, in fondo, aveva solo ventiquattro anni e poteva ancora sperare di potersi fare una famiglia con un bravo giovane.
Chi glielo faceva fare di prendere una qualsiasi posizione? Tanto a loro non stava capitando nulla! Ascoltavano silenziosi e compunti, o pietosi, a seconda dei casi, ma sempre neutri.
Devo dire che quando, in passato, avevo tentato di dire il mio punto di vista, magari contraddicendo quello di mia suocera o di Luciana,  in presenza di  Clementina, questa, alcune volte, furtivamente, mi aveva dato di gomito e mi aveva fatto un cenno con gli occhi come per dire:" Lascia stare, chi te lo fa fare?" Rivelando sì, una natura opportunista, ma forse, proprio per questo, più saggia. Clementina aveva capito che quelle due donne non volevano mai essere contraddette, non amavano il confronto di idee: per questo Luciana era priva di vere amicizie.
Finì che, ancora una volta, avevano fatto bene i calcoli Nicola e Clementina. La loro ruffianeria, che non portava nulla di buono alla situazione di Luciana, portò molto di buono a loro.
Osannati e portati ad esempio, approvati in tutto, alleggeriti delle spese brute di vitto, misero da parte un altro po’ di soldi.
La relazione adulterina continuò.
Luciana si stupiva che la moglie del suo amante "non le mandasse addosso i suoi fratelli", come in una saga rusticana!
Pensavo che diceva delle assurdità: la signora era laureata, di buona famiglia ed ottima educazione. Luciana avrebbe, in cuor suo, sperato in uno scontro, per sentirsi più importante. L'atteggiamento "soft" della signora, la sua dignità, le riuscivano incomprensibili.
Diceva cose sorprendenti, del tipo: "L'amore vero è sempre contrastato!" Qualche volta tentavo di spiegarle:" Ma no! Perché? L'amore vero è serenità, gioia, completezza, felicità!" Assumeva allora l'aria scioccamente superiore e annoiata di sua madre, quando riteneva che la sciocca fossi io e che non capissi: ed il discorso finiva lì.
Il padre, oltre a piangere, arrivò a dire: "Prendo una pistola, li sorprendo in macchina e gli sparo!"
La moglie me lo raccontò per darmi la misura della sua disperazione, non senza mettere, nel raccontarlo, un tono di ironica commiserazione per il marito, cogliendo, forse, nella velleitaria proposizione dell'uomo tutta l'inutile puerilità.
Quest'uomo, che aveva deputato, un po’ per necessità, un po’per incapacità, un po’ perché gli sembrava giusto così, l'educazione dei figli alla moglie e si era proposto solo come figura autoritaria, che fa paura, il "babau" che viene presentato come paurosa punizione ai piccoli discoli, era in realtà un debole. La sua sola qualità indiscutibile era la dedizione al lavoro: in certi periodi della sua vita aveva dormito anche solo quattro ore per notte pur di assicurare alla sua famiglia il necessario. Sua moglie non gli era venuta incontro in niente: nessuna particolare voglia di lavorare o di fare economie. Faceva economie solo sulle sue energie. Certe sere, per lunghi periodi, aveva fatto cenare i suoi figli al bar, con un cappuccino ed un cornetto, per non cucinare, apparecchiare la tavola e riordinare dopo.
Ora cosa poteva aspettarsi da quell'uomo che non aveva saputo fronteggiarla: debole con lei, debole con la figlia.
L'ottusa ragazza arrivava a livelli di cinismo che si potevano spiegare solo in due modi: o era totalmente stupida da non rendersi conto della sofferenza morale dei suoi genitori o era costruita in modo così singolarmente amorale da non avvertire minimamente il senso immorale del suo comportamento.
Arrivò addirittura a confidarsi con l'odiata cognata:
"Ieri sono uscita con Ruggero, - l'amante - mi sono messa il vestito grigio con gli accessori rossi, ma al momento di uscire loro - i suoi genitori - mi hanno rovinato tutto! Si erano buttati  sul  letto  come  due  stracci,  quando  sono  andata a salutarli sembravano due cadaveri! Sono uscita con un altro umore, ero così felice! Non hanno il diritto di rovinarmi tutto!"
Ero allibita dalla sua incapacità a capire: "Ma non pensi che per loro è un dolore che tu esca con quell'uomo?" Le dicevo.
Non capiva proprio e reagiva indignata: "Non hanno il diritto di rovinarmi i momenti belli così, assumendo quell'aria da morti!"
"Cosa avrebbero dovuto fare secondo lei, - pensavo - essere pure contenti!" Per quanto avessero sbagliato, erano pur sempre dei genitori che vedevano la loro figlia, poco più che ventenne, andare in malora dietro ad un uomo sposato, che viveva ancora nella casa coniugale e che aveva oltrepassato da un pezzo i quarant'anni.
*****

Col tempo il padre divenne più possibilista. Al figlio maggiore confidò che, se la figlia fosse andata a vivere con l'amante in un'altra città, lui sarebbe andato a far loro visita.
Ma che speranze aveva per l'avvenire Luciana?
Attendeva la sentenza della separazione legale, poi sarebbe andata a vivere con l'amante.
L'uomo si fece trasferire in un'altra città, in modo da creare una separazione di fatto fra sé e la famiglia. Ma la creò anche fra sé e Luciana, perché lei continuò a vivere in casa con i genitori.
La madre, dapprima, aveva assunto un atteggiamento passivo, giustificandolo con discorsi del tipo: "Se contrastati, tanti si ammazzano, non leggi i giornali? Li trovano morti, magari che si sono sparati....." Evidentemente la famiglia aveva una tendenza al melodramma d'appendice. Dopo iniziò una sotterranea persuasione, tutta giuocata fra sé e la figlia, il padre ne era completamente fuori. Via via che otteneva un piccolo successo e che vedeva che il suo ascendente sulla poveretta non era diminuito, assumeva un atteggiamento sicuro, ridiventava malvagia con l'odiata nuora e arrogante fino al delirio: "Mia figlia è una santa, - diceva - una santa!" L'idea dei santi che mi aveva propinato la mia religiosissima madre era molto diversa.
Ruggero premeva perché lei lo seguisse, ora che lui aveva fatto il passo di lasciare la famiglia. Ma lei cominciò a titubare, a temporeggiare, sotto l'incalzare delle fitte argomentazioni di sua madre. Alla fine lo lasciò.
L'uomo si trovò sbalestrato: camminava verso la cinquantina, ci aveva creduto, aveva lasciato per lei la moglie che non aveva, per sua stessa ammissione, particolari colpe o difetti, aveva cambiato lavoro, casa e città ed ora si ritrovava solo come un cane. Tutto era stato inutile.
Mi chiedevo quanto poteva essere stato potente il sentimento che Luciana aveva provato: potente al punto di non farsi scrupolo di disgregare un nucleo familiare che, comunque, esisteva, ma non abbastanza potente da indurla ad uscire di casa alla luce del sole ed affrontare il mondo andando a vivere con l'amante.
Le argomentazioni della madre, del tipo:" Tu verrai sempre dopo i suoi figli!" E la paura di assumersi le sue responsabilità alla luce del sole, la fecero retrocedere dopo qualche anno di relazione.
La madre poco dopo morì.
Fu un colpo per Luciana. Era stata il suo despota, ma anche il suo riferimento. Ora le mancava. Non sapeva più cosa fare.
Ebbi per lei la pietà che lei non aveva avuta per me appena tre anni prima quando avevo perso mio padre. Era morto, poco più che cinquantenne, all'improvviso e da solo. Misi da parte il ricordo bruciante di certi suoi commenti stolti, fatti con gelida indifferenza: " Tutti dobbiamo morire!"
Non una parola di consolazione; commenti derisori ed irrispettosi, invece,  fatti addirittura con una sua collega d'ufficio, degna di lei, la quale, un giorno che la madre mi aveva indotto a chiamarla per telefono mentre era al lavoro, me la passò con queste parole: " Tieni Luciana, è la meno matta!" E giù una gran risata. Mio padre era morto da tre mesi appena. Mia madre era malata di nervi da quando ero bambina ed ero stata costretta a prenderla con me per non lasciarla sola. Dovevo prendermi cura di lei e dei miei tre piccolissimi figli e tirare avanti nonostante l'immenso dolore.
Persino Clementina, in quella circostanza, fu migliore di lei e di sua madre. L'atteggiamento delle due sciagurate era di "piacevole spettatore della disgrazia altrui".
La madre, degna maestra, arrivò a tentare di deprimermi dicendole: "Non ti sembra invecchiata?" Erano in visita a casa mia, sedute sul mio divano e l'orribile donna aveva fra le sue mani uno dei miei figli: guardandomi con distacco, si rivolse con quella inusitata domanda a sua figlia, continuando a guardarmi come se fossi un oggetto senza sentimenti né pensieri. Avevo venticinque anni ed ho sempre dimostrato molti anni meno della mia età per la mia aria adolescenziale. La mia buona intelligenza non fu sfiorata da nessun dubbio sul mio aspetto, ma capì subito la manifesta intenzione di quella miserevole creatura e, come al solito, mi colpì solo la constatazione della sua irresponsabile cattiveria.
Ora, tre anni dopo, Luciana sapeva cos'era la morte. Sua madre aveva vissuto dieci anni più di mio padre, essendo più vecchia, ed aveva avuto una vita serena, fatta eccezione per lo smacco della relazione adulterina di sua figlia.
Mio padre aveva avuto una vita molto sofferta, invece.
Non potevo essere meschina come lei e la sua morta: non potevo per me stessa.
Ebbi nei suoi riguardi un comportamento del tutto opposto al suo: un comportamento normale, tutto sommato, in simili circostanze.
Lei continuò in certi suoi atteggiamenti che avrebbero meritato solo uno sputo in faccia. Certo non ci si poteva aspettare che pensasse: "Io mi sono comportata "in quel modo" quando è morto suo padre, lei invece, ora, si comporta normalmente."

*****

Corsi sul luogo della morte recando con me i miei tre piccoli figli, traumatizzandoli anche. Avrei potuto evitarlo per loro, e sarebbe stata un'ottima scusa anche per me.
Giulio si dovette occupare di tutto. Eppure c'era il marito, e non era così vecchio o malandato da non potersi occupare di certe cose. Giulio, dopo aver passato la notte con me a vegliare, il giorno dopo dovette entrare nella stanza, appestata ormai  dal  puzzo  di  putrefazione, per assistere alla chiusura della bara. Suo padre e sua sorella si evitarono questo trauma standosene in un'altra stanza. Quando era morta, strozzata da un aneurisma dell'aorta ascendente, c'erano loro, ma ci vivevano insieme, ed era stato inevitabile. Giulio, invece, il criticato Giulio, quello che era andato a pulire con lo straccio il banco di lavoro di una fabbrica per portare i soldi a loro, quello che si era sposato a ventisei anni "accontentandosi" di ricevere poco, per stessa incoerente ammissione della madre, viveva con sua moglie ed i suoi tre bambini, riducendo gli incontri al minimo indispensabile, per non esporre sua moglie al linciaggio continuo e, allo stesso tempo, evitando una rottura definitiva con quella tragica famiglia.
Suo padre lo ringraziò apostrofandolo, davanti agli estranei pietosi accorsi nella casa del lutto, con queste parole: "Tu hai fatto soffrire tua madre." Tutti gli occhi dei vicini di casa si spostarono su Giulio: se il padre proferiva parole così gravi, con la morta ancora nell'altra stanza, doveva aver fatto davvero qualcosa di molto grave!
Giulio tacque. Lessi nel suo cuore, conoscendolo. Non poteva rispondere a quell'irresponsabile accusa senza mettere in piazza, in un momento così delicato, la sua famiglia d'origine. Avrebbe dovuto gridargli:" A me, a me dici questo?! Cosa puoi rimproverarmi? Di essere l'unico che si è preoccupato della situazione economica della famiglia che tu ti sei costruito? Di averti dato soldi, di aver economizzato su me stesso? Di essermi preoccupato dell'educazione culturale di mio fratello minore, di cui ti saresti dovuto occupare tu che sei il padre? Di cosa soffriva mia madre? Del fatto che amavo ed amo mia moglie nonostante voi non la possiate soffrire? Del fatto che sono felice con lei? Perché dici questo a me quando hai accanto tua figlia che ha intrecciato una relazione adulterina? A lei non dici che ha fatto soffrire la madre? Lo dici a me? Di che soffriva mia madre?
Di ciò che si faceva da sola con la sua ingiustizia e cattiveria! Dov'è il figlio che si è potuto sposare a ventiquattro anni, lui sì, spesato di tutto, e dov'è la moglie che vi piace tanto? Sono in vacanza? E non vi hanno lasciato nemmeno l'indirizzo, né un numero di telefono? Eppure sono sempre qui quando si tratta di mangiare e portarsi la cena a casa già fatta!"
Non poteva parlare Giulio, dunque, perché quello che avrebbe dovuto dire avrebbe denudato la sua famiglia d'origine davanti ad estranei. Così tacque. Ancora una volta l'irresponsabilità estrema di chi viveva in modo ingiusto si faceva scudo della responsabilità di chi veniva ingiustamente accusato.

*****

Luciana tacque. Non disse una parola in difesa del fratello. Lei, sempre pronta a giustificare tutto dell'altro e di sua moglie! Questa era la famiglia di Giulio: la verità sempre in fondo come la melma, in faccia agli estranei si buttava acqua limpida.
Nicola e Clementina furono rintracciati dalla polizia, ad esequie e tumulazione avvenute, su una spiaggia del sud: invano erano stati fatti anche appelli radio.

*****

Morta la madre, lei ebbe un cedimento e la relazione interrotta riprese. Il padre non fece nulla per impedirlo: la madre, più forte, ci era riuscita, lui, debole e vile, no.
Clementina assunse un atteggiamento protettivo nei riguardi della nuova scelta sbagliata di Luciana, protettivo soprattutto nei miei confronti, come se il danno potesse venirle da mie eventuali critiche. Io non dissi mai niente: era più che matura, aveva ormai più di trenta anni, facesse della sua vita quel che voleva, e le critiche meschine, le battute miserabili non erano il mio pane, bensì il loro.
Luciana voleva uscire di casa solo dopo il divorzio: finalmente la legge c'era! L'uomo però non condivideva. Nonostante la presa che vent'anni di meno le consentivano, Luciana cominciò  ad essere vista per quello che era anche da Ruggero. Lasciato e ripreso, non capiva i tentennamenti di lei ad andare a vivere insieme in attesa della sentenza di divorzio.
"Mi chiede di andare a vivere con lui, ma io non posso lasciare mio padre!" 
"Ma tuo padre sta bene, dimostra dieci anni meno della sua età, e non è certo vecchio a sessantacinque anni." Le dicevo io.
Allora assumeva la solita aria di superiorità e infastidita ribatteva: "Non capisci, non puoi capire!" Quello che capivo non glielo potevo dire ma, a poco a poco, me lo disse lei:
"Ruggero mi dice delle cose....delle cose...."
"Cosa? - Chiedevo lievemente, con cautela, sentendo la sua voce turbata ed il tono critico verso l'amante.
"Mi dice - sbottava indignata, ma con una punta di insicurezza  - che io mi sono innamorata di lui perché non ho superato il complesso edipico! Per questo, perché non posso avere mio padre io cercherei in lui il padre! E' assurdo!"
Se avessi avuto davanti a me una persona con un minimo di coraggio morale e capace di affrontare la verità, le avrei detto che era esattamente quello che pensavo anch'io, da tanto tempo, anche se non ero sicura della mia analisi. Ma che lo dicesse la persona che, per sua stessa ammissione, la conosceva meglio al mondo, la persona alla quale aveva confidato tutto di sé: le frustrazioni del suo fidanzamento con Giorgio, quelle familiari, il rancore verso i genitori che non si erano preoccupati dei suoi studi, del suo avvenire, ed altro ancora....Stava a dimostrare che un fondamento di verità, in una tale analisi, doveva esserci.

*****

Il tempo passava ed il rapporto si logorava. Finì.
Luciana rimase sola con il padre: sempre più vecchio, sempre più arteriosclerotico, chiuso in un triste, egoistico lasciarsi vivere.
Lei cominciò ad assumere atteggiamenti manieristici, da vecchia zitella. Eppure era ancora sotto i quarant'anni, piacevole d'aspetto. Non aveva amici, né un'amica vera, come solitamente capita a chi è "single", quindi con più tempo a disposizione da dedicare agli altri.
Viveva con il vecchio assillandolo con attenzioni che lui respingeva, o almeno, tentava di respingere. Ma lei assumeva sempre più gli atteggiamenti dispotici di sua madre, senza peraltro averne la personalità, e lui finiva per cedere. Con gli anni era diventato sempre più dipendente da quelle attenzioni. 
Lei allora se ne lamentava, con assurda contraddizione, con me e Clementina. E quest'ultima, rivolta a me, commentava: "Ti rendi conto? La tratta come se fosse la moglie! Crede che sia sua moglie!" Le guardavo esterrefatta e tacevo. Mi chiedevo se Clementina aveva coscienza della gravità di ciò che diceva del vecchio. Era pazzo lui o era lei la pazza che proiettava su di lui i suoi problemi edipici irrisolti? Clementina sembrava addebitare tutto al vecchio, dandogli così, implicitamente, del pazzo. Ma io non credevo che le cose stessero così. Io credevo nella debolezza di carattere del vecchio, abituato da sempre a subire. E Luciana si rendeva conto della gravità delle parole di Clementina?
Lei taceva senza imbarazzo per le parole dette dalla cognata, forse perché inconsciamente le creavano un alibi e lei poteva, così, continuare a vivere senza prendere coscienza dei propri problemi.
Qualcuno, però, tentava di metterla sulla strada buona. Qualcuno che aveva la veste per farlo.
"Sono stata dal dottore, - uno specialista qualsiasi, non so per quale disturbo - sai come sono, ti fanno domande su tutto e...mi ha detto di andare dallo psicoanalista." Lo raccontava con noncuranza, sorridendo, ma l'insicurezza era evidente.
Questo le fu detto da più di un medico, in diverse occasioni. Ma lei disse:"Ho paura di andarci." Quello fu il momento in cui fu più vicina alla verità.
*****

Che ci fosse della patologia anche nella psicologia del vecchio me lo può far pensare un episodio.
Erano i primi tempi della sua vedovanza, parlavamo di consumi di elettricità. Io mi lamentavo di dover, a volte, esser costretta ad accendere due scaldabagni perché, essendo in cinque, uno non bastava per fare il bagno tutti: "Voi siete due, ve ne basta uno." Dissi a mio suocero. E lui, con l'aria stonata, rispose imbarazzato: "Mica facciamo il bagno insieme!" Rimasi di sasso per quella inutile ed inusitata precisazione a cui solo lui aveva pensato.
Continuai a trattare con Luciana con cautela e senza contraddirla: non c'era altra possibilità di rapporto. Negava l'evidenza, quello che non le piaceva non c'era, non esisteva, e se ne creava un'altra di realtà.
Il gioco opportunista di Clementina, l'egoismo di Nicola, le erano chiari ormai, ma non poteva più tirarsi indietro: provò ad invitarli di meno a pranzo, a fare di meno l'ancella. Subito fu evidente che, abituati come erano a prendere ed a non dare nulla, senza più avere non restava di loro niente: la loro presenza c'era a scaldare la misera vita di Luciana solo se lei era disposta a continuare a dare e dare e dare. Questa era la sua punizione.
Aveva innalzato degli egoisti per odio verso altri ed ora non aveva più nulla.
Aveva preso l'amore di un uomo per rifarsi di un rapporto frustrante, per vanità, senza avere il coraggio di affrontare il mondo, ed ora dava tutta la colpa a lui che non aveva saputo stare alle sue assurde condizioni: "Io uscirò da questa casa solo con l'abito bianco!" Era arrivata a dire.
Si aggrappava al suo lavoro ed alle magre soddisfazioni che questo poteva darle.
Si lamentava di suo padre, di doversene occupare, arrivava a dire che per lui aveva sacrificato la sua vita sentimentale....
      Poi paventava la solitudine dopo la sua scomparsa.    

 
                        



  

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