Tanta, troppa gente, nel passato e nel presente e in troppi Paesi, parla di "ebrei" come se fossero una categoria di persone, categorizzando milioni di persone invece tutte diverse. Ma non solo perché italiani, o francesi, piuttosto che israeliani o statunitensi, polacchi o lituani, ma soprattutto perché persone diversissime tra loro in quanto individui!
Un esempio recente me lo suggerisce Philip Roth di cui ho scritto dopo averlo letto ed ora che sto leggendo Amos Oz.
Fra questi due uomini, di cultura ebraica, c'è un abisso immenso.
E non solo per le loro diverse esperienze di vita, bastando leggere le loro biografie, ma per il modo in cui la realtà viene interpretata dalle loro due menti, dai sentimenti che trasmettono attraverso la loro analisi della realtà.
Non c'è da stupirsi, naturalmente, dato che scrittori che vengono da una formazione e cultura cristiana sono fra loro ugualmente immensamente diversi, essendo ogni persona una cassa di risonanza della realtà specifica nella propria individualità. Ma la mia riflessione parte da questa inspiegabile e voluta categorizzazione dell' ebraismo. Amos Oz non solo non ha nulla in comune con Roth, ma di sicuro ha molto in comune con me, nata cristiano cattolica che ha elaborato la realtà oggettiva della propria esperienza fino a diventare atea e con sentimenti e visioni dell'esistenza che trovano in Oz una mente simile in alcuni passaggi. Ad esempio nella primissima infanzia, essendo il libro che sto leggendo autobiografico, in cui in età precocissima Amos pensava e rifletteva sui fatti che gli accadevano fino ad averne da adulto memoria.
Quando racconto mie esperienze in cui non potevo avere più di tre anni molti mi dicono "Non è possibile". Perché loro non hanno ricordi così precoci. Dunque, dicono "Ti sbagli, eri più grande". Ma non è così, perché posso datare quei nitidissimi ricordi per i luoghi dove sono avvenuti, luoghi dove ero solo a quella data età, poi non più.
Ma quello di cui voglio parlare, non avendo finito di leggere il libro ma stando circa alla metà, è della ferita principale della vita di Amos Klausner che si dette il nome di Oz, che in ebraico vuol dire Forza.
Non sono ancora arrivata al punto in cui, forse, darà dettagli sul suicidio di sua madre: come e in quali circostanze. Per ora sto scoprendo quello che lui scrive di aver provato subito dopo, aveva dodici anni e mezzo, e qualcosa di quello che ha provato pochi anni dopo.
Ma prima di leggere le pagine di un dolore, il solo fatto di aver appreso che la madre di questo scrittore si fosse uccisa quando lui aveva dodici anni e mezzo mi aveva fatto pensare all'immenso trauma che si spalanca dentro l'anima di un bambino lasciato solo, di colpo, dalla propria madre. Un abbandono totale, definitivo, inspiegabile.
La madre se ne va volontariamente nel Nulla ed io, figlio bambino che resto da solo, non posso capire di depressione, di male psichico... Io sono, debbo essere al centro dei pensieri di mia madre, sono, debbo essere la sua ragione di vita, la cosa in assoluto più importante per lei, così, circondato e protetto dal suo amore io cresco come una piantina al sole del suo calore e all'acqua delle sue lacrime per me... Se sto male, se mi faccio male.. Lei è sempre preoccupata per me ed io sono io perché lei mi ama. Cresco sicuro di me perché c'è lei che mi ama.
Questo sono stata io bambina e questo, tenendolo ben presente dentro di me, sono stata, ho cercato di essere, per ognuno dei miei tre bambini.
Si può sbagliare, e si sbaglia, uno schiaffo, uno sculaccione, uno strillo, un rimprovero, ma mai far sentire ad un figlio che lui non è tutto per te, lui unico ed irripetibile, ciascun figlio, nessuno amato meno dell'altro, così, con l'amore, viviamo coperti come da una copertina calda in inverno.
Come deve essersi sentito il piccolo Amos, figlio unico, come sono stata anch'io, di fronte alla sparizione di sua madre per suicidio?
Non è solo l'assenza improvvisa e definitiva, ma è che quella madre non ha pensato a me andandosene, non ero io al centro del suo cuore, non sono stato io figlio il motivo sufficiente a farla stare al mondo: nudo, solo nudo al mondo deve essersi sentito Amos. Tradito anche. E in colpa. Come infatti lui scrive.
Non mi sono stupita di questo aspetto, anzi, me lo aspettavo. Sempre, quando ci viene inflitto un dolore ingiusto, ci incolpiamo attribuendo a noi stessi la colpa: "Forse ce lo meritavamo?"
Poi c'è l'elaborazione...
Quanto deve aver sofferto il piccolo Amos per risalire dal pozzo nero in cui l'ha gettato l'abbandono volontario e definitivo di sua madre...
Non so, per mia fortuna, cosa sia la depressione, e dunque non ho il diritto di giudicare: è una malattia psichiatrica. Come si può imputare ad un malato la sua malattia? Eppure, eppure, sono sempre dalla parte di chi subisce danno e dolore in conseguenza degli atti di questi malati: per loro è più importante la loro malattia che chiunque altro. Non sono uno psichiatra, ma mi sembra che la malattia sia una fuga. Fuggire dalla realtà che non si sopporta pensando solo a sé stessi in un egocentrismo estremo. Perché, se solo l'amore per un figlio superasse ogni cosa, anche il malato potrebbe tenere conto che ogni cosa che fa nuoce a lui: al suo cucciolo. Un amore naturale, istintivo, animale dovrebbe salvare il malato psichiatrico da gesti estremi. Ma chissà, forse uno psichiatra non sarebbe d'accordo con queste mie analisi.
Non sono ancora arrivata al punto in cui, forse, darà dettagli sul suicidio di sua madre: come e in quali circostanze. Per ora sto scoprendo quello che lui scrive di aver provato subito dopo, aveva dodici anni e mezzo, e qualcosa di quello che ha provato pochi anni dopo.
Ma prima di leggere le pagine di un dolore, il solo fatto di aver appreso che la madre di questo scrittore si fosse uccisa quando lui aveva dodici anni e mezzo mi aveva fatto pensare all'immenso trauma che si spalanca dentro l'anima di un bambino lasciato solo, di colpo, dalla propria madre. Un abbandono totale, definitivo, inspiegabile.
Lo scrittore bambino con sua madre Fania Mussmann e suo padre Yehuda Arieh Klausner |
La madre se ne va volontariamente nel Nulla ed io, figlio bambino che resto da solo, non posso capire di depressione, di male psichico... Io sono, debbo essere al centro dei pensieri di mia madre, sono, debbo essere la sua ragione di vita, la cosa in assoluto più importante per lei, così, circondato e protetto dal suo amore io cresco come una piantina al sole del suo calore e all'acqua delle sue lacrime per me... Se sto male, se mi faccio male.. Lei è sempre preoccupata per me ed io sono io perché lei mi ama. Cresco sicuro di me perché c'è lei che mi ama.
Questo sono stata io bambina e questo, tenendolo ben presente dentro di me, sono stata, ho cercato di essere, per ognuno dei miei tre bambini.
Si può sbagliare, e si sbaglia, uno schiaffo, uno sculaccione, uno strillo, un rimprovero, ma mai far sentire ad un figlio che lui non è tutto per te, lui unico ed irripetibile, ciascun figlio, nessuno amato meno dell'altro, così, con l'amore, viviamo coperti come da una copertina calda in inverno.
Come deve essersi sentito il piccolo Amos, figlio unico, come sono stata anch'io, di fronte alla sparizione di sua madre per suicidio?
Non è solo l'assenza improvvisa e definitiva, ma è che quella madre non ha pensato a me andandosene, non ero io al centro del suo cuore, non sono stato io figlio il motivo sufficiente a farla stare al mondo: nudo, solo nudo al mondo deve essersi sentito Amos. Tradito anche. E in colpa. Come infatti lui scrive.
Non mi sono stupita di questo aspetto, anzi, me lo aspettavo. Sempre, quando ci viene inflitto un dolore ingiusto, ci incolpiamo attribuendo a noi stessi la colpa: "Forse ce lo meritavamo?"
Poi c'è l'elaborazione...
Quanto deve aver sofferto il piccolo Amos per risalire dal pozzo nero in cui l'ha gettato l'abbandono volontario e definitivo di sua madre...
Non so, per mia fortuna, cosa sia la depressione, e dunque non ho il diritto di giudicare: è una malattia psichiatrica. Come si può imputare ad un malato la sua malattia? Eppure, eppure, sono sempre dalla parte di chi subisce danno e dolore in conseguenza degli atti di questi malati: per loro è più importante la loro malattia che chiunque altro. Non sono uno psichiatra, ma mi sembra che la malattia sia una fuga. Fuggire dalla realtà che non si sopporta pensando solo a sé stessi in un egocentrismo estremo. Perché, se solo l'amore per un figlio superasse ogni cosa, anche il malato potrebbe tenere conto che ogni cosa che fa nuoce a lui: al suo cucciolo. Un amore naturale, istintivo, animale dovrebbe salvare il malato psichiatrico da gesti estremi. Ma chissà, forse uno psichiatra non sarebbe d'accordo con queste mie analisi.