Sisma
Romanzo inedito di Rita Coltellese
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scritta la data di pubblicazione del precedente in modo che il lettore possa,
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SISMA
Capitolo I
Partì da sola
in inverno. Sperando così di non incontrare nessuno. Guidò per oltre cento
chilometri serenamente, le piaceva guidare e pensare. Ai lati del nastro di
asfalto scorrevano panorami di verdi colline con, ogni tanto, paesi grandi e
piccoli arroccati.
Stare da sola
le dava una sottile, piacevole eccitazione, guidare un senso di libertà e di
sicurezza. I luoghi sono stimoli di ricordi, senso di appartenenza. Ecco
Antro dell'Oco, Settimo Sigillo.. Le risuonarono nei ricordi le parole di suo padre su quei
luoghi di passaggio per tornare da Roma al suo paese natìo: "Che brutti
punti.. Fra le montagne." Eppure lui ci era nato fra i monti.. Ma forse
era perché il paesino da dove proveniva lui era incollato sul fianco di un'alta
collina, con la valle dove scorreva il fiume sotto, accanto alla strada statale
che lei, Sara, stava percorrendo. I monti erano più su, alle spalle e, oltre la
valle, davanti, si ergeva maestoso Pizzo di Scala, lontano, a far da panorama.
D'estate quel
monte diventava tutto d'oro prima del tramonto, poi in pochi minuti quell'oro
virava al rosa, poi al violetto, indi grigio e infine spariva nel buio della
notte.
Ricordava il
suo stupore di bambina ogni volta che d'estate i suoi genitori la portavano nel
loro paesetto natale a passare le vacanze: scopriva un cielo che nella città dove
era nata non esisteva neppure nelle notti più serene.
"Quante
stelle.. Non c'è quasi un pezzetto di cielo buio tante ce ne sono.. E come sono
brillanti! Ma dove si nascondono giù in città? Perché si vedono solo qui?"
A quel tempo
il paesino aveva una pallida illuminazione pubblica, costituita da bracci in
ferro piantati ogni tanto nei muri delle case rustiche e antiche, da cui
pendevano dei piatti smaltati di bianco su cui erano avvitate fioche lampadine.
Usciti da quei rari coni di luce si ripiombava in un buio assoluto dove,
d'estate, volavano lievemente delle lucciole.
Le tornò
l'immagine di suo padre che prendendo per la manina suo figlio Marco gli
diceva: "Andiamo, a' nonno, andiamo a vedere le lucciole." E il
bambino gli porgeva fiducioso la mano e il nonno si avviava con lui poco
distante dalla casa delle vacanze dove, appena usciti da un cono di luce
pubblica, svoltando si entrava in una strada buia dove brulicavano quei magici
lumini che incantavano il bambino.
Ecco, ora
usciva dalla strada statale e imboccava la via che si inerpicava in salita
verso il paese natale dei suoi genitori.
"L'hanno
asfaltata." Pensò, ricordando che l'ultima volta che era stata lì era
ancora imbrecciata di bianchi sassi.
Alla prima
curva a tornante rivide il rudere che era lì da sempre e dove la fantasia dei
bambini del posto comunicava che "lì uscivano gli spiriti". Forse era
quel che restava di un antico terremoto dove erano perite delle persone e di
generazione in generazione si tramandavano quella fantasia?
Dall'immagine
tetra la trasse il ricordo di un'emozione forte: quella che lei diciottenne aveva
provato incontrando proprio lì, in quella curva, il suo innamorato che l’aveva
raggiunta in quel luogo di vacanza in auto. Lei era scesa a piedi dal paese che
era due chilometri più in alto. Lo aspettava e quando vide la sua utilitaria fu
felice come si può esserlo quando si è totalmente e profondamente innamorati.
Lui arrestò l'automobile e scese quasi correndole incontro preso dalla stessa
emozione. Si abbracciarono. Poi risalirono in macchina per avviarsi su, in
mezzo agli altri.
Non era nata
lì, neppure aveva più radici in quei luoghi, eppure lì erano molti suoi
ricordi. Ora aveva quasi timore di proseguire, di non ritrovare le immagini
immagazzinate nella mente, eppure aveva sentito il bisogno di fare quella
specie di pellegrinaggio.
Per strada non
c'era anima viva. Il momento del via vai, della massima attenzione, era
scemato. Il cielo era grigio come si addice ad una giornata d'inverno, l'aria
fina e pungente come a volte era anche d'estate in quei posti.
La strada ora
tagliava in due quella che era stata la vigna che suo padre aveva fatto
arrivare da Maccarese e che aveva fatto ripiantare dove era morta quella che
aveva curato suo nonno.
Un'altra
delusione di suo padre, altri soldi buttati, altra ingratitudine da parte di
quel fratello rimasto a fare il contadino. Non l'aveva saputa curare e l'aveva
fatta morire.
Suo padre
amava la terra, ma non poteva averne cura dato che aveva un lavoro impiegatizio
in città. Contava dunque su quel fratello e investiva anche i suoi soldi per
quella passione, cercando così pure di aiutarlo.
Ma già allora,
bambina, Sara avvertiva una realtà che suo padre sembrava non vedere. Eppure
era stimato da tutti come un uomo intelligente. Come mai quella realtà che
arrivava con segni inequivocabili alla capacità di comprensione di una bambina,
sia pure particolarmente acuta e sensibile, a lui non arrivava ad aprirgli gli
occhi?
Nel corso
della vita Sara aveva scoperto
altre volute cecità di persone, forse
perché psicologicamente malate, ma quella di suo padre, con l'esperienza di
vita da adulta, le appariva non comprensibile, forse spiegabile con una sua
fragilità caratteriale ed affettiva: egli rifuggiva dalla delusione frustrante
di riconoscere che quel fratello, che egli diceva essere l'unico, essendo gli
altri ben peggiori, lo assecondava per mero interesse e non per vero affetto di
cui lui aveva tanto bisogno.
Suo figlio
Marco somigliava al nonno per molti aspetti del carattere e, particolarmente,
per questa sua grande capacità di amare e fame di amore.
"Siamo
DNA anche nei sentimenti, i geni hanno codificati anche quelli." Pensava
Sara riflettendo su suo figlio ormai uomo adulto anche lui.
"Possiamo essere plasmati dall'ambiente, possiamo lavorare su noi stessi, ma alcuni aspetti sono nei geni, c'è poco da fare.." Tanti anni aveva vissuto, tante persone aveva visto nascere e crescere e osservandole ora era arrivata alla convinzione che nei geni non c'è codificato solo il colore dei capelli e degli occhi, ma anche aspetti del carattere non sempre modificabili con la volontà.
Ecco la curva dove l'auto con autista era finita nella scarpata con sua madre a bordo.
Doveva essere una gita al lago ed era finita all'Ospedale, ora anch'esso distrutto dal terribile sisma che aveva sconvolto quei luoghi.
Che corsa quando qualcuno del paese era arrivato fuori dalla sua casa gridando che l'auto su cui viaggiava sua madre era finita fuori strada, nella scarpata.
Tutto veniva drammatizzato da quelle persone dai sentimenti primordiali.. Un incidente stradale poi per quei posti in cui circolavano allora poche automobili era un avvenimento per il quale l'agitazione era massima.
Quell'anno era sua ospite l'amica Pamela. Corse con lei lungo la strada per raggiungere il luogo che vari ragazzini correndo con loro le indicavano. Era a circa un paio di chilometri dall'abitato, il cuore le batteva così forte che dovette fermarsi perché sembrava scoppiarle in petto. Pamela diceva che quel giorno aveva le mestruazioni, che erano per lei sempre abbondanti, e con la corsa stava perdendo molto sangue. Rimase indietro. Sara continuò da sola con gli infaticabili ragazzini.
Finalmente giunse sul posto. L'auto, non si capiva come e perché, non aveva girato alla curva ed era andata dritta giù nella scarpata. Sara si sporse e vide la grossa auto scura ferma sul costone, il muso in giù, tenuta da grossi cespugli e arbusti che ne avevano per fortuna arrestato il precipitare.
C'erano altre persone nel punto, alcuni accorsi per curiosare perché di avvenimenti lì, all'epoca, non ve ne erano tanti e anche un incidente costituiva un evento straordinario.
Le parlò Emanuele, un ragazzo di pochi anni più grande di lei: "Li hanno portati all'Ospedale. Erano tutti vivi. Tua madre l'ho tirata fuori io e l'ho portata in braccio fino qui, sulla strada, poi con delle auto accorse, ciascuno di loro per ogni auto, li hanno portati all'Ospedale. Stai tranquilla, tua madre aveva solo delle ferite in testa dovute ai vetri del finestrino che si è rotto. Ma stava bene.. Se vuoi ti porto con la mia auto all'Ospedale."
"Grazie Emanuele, - ringraziò lei piangendo - grazie di aver raccolto mia madre e grazie se mi accompagni lassù, perché io non saprei come andare."
Quel ragazzo era buono e servizievole anche perché lavorava per uno dei fratelli di suo padre e voleva rendersi utile.
Lei lo avvertiva, ma sentiva anche che Emanuele era buono, una persona gentile, educata e corretta come pochi.
Arrivati in Ospedale vide sua madre su una barella quasi incosciente con gli abiti sporchi di sangue.
Pianse di nuovo, chiese ad un medico cosa avesse, ne ebbe delle rassicurazioni ma certo si dovevano fare le radiografie... La barella sparì con sua madre. Bisognava attendere.
Bisognava avvertire suo padre che era a Roma, al lavoro, ma lei non aveva soldi, si era precipitata letteralmente fuori di casa per correre sul luogo dell'incidente così come stava... Emanuele fu dolcissimo e si offrì di cercare un telefono a gettoni, pagò la telefonata, stette accanto a lei tutto il tempo. Una persona fu, in quel drammatico momento, calma, seria, protettiva, un sostegno...
Non era certo colpa sua se sua madre in un modo e suo padre in un altro fossero persone così chiacchierate in quel paese...