Capitolo VI
Dopo ore che guardava l'amato volto di sua madre, nell'impotenza totale, decise che sarebbe andata a casa.
La sacca delle urine, pendente fuori dalle coltri al lato del letto, si faceva sempre più scarsa.
Una donna brutta e anziana era lì ricoverata nella stessa stanza a quattro letti. La guardava e le disse: "Va via?"
"Sì, - rispose lei - non mi vede, non mi sente, non posso fare niente."
La donna la guardò con riprovazione: "Quando è morto mio marito è stato in coma due giorni e due notti, ma io non l'ho lasciato un attimo!"
Rita non contrastò l'ennesimo biasimo su di lei e sulle sue scelte, lasciò che quella donna si sentisse di molto superiore a lei, e forse lo era, nel suo inutile essere stata accanto a chi non vedeva e non sentiva più. Quel sacrificio la faceva stare bene con la sua coscienza.
Ma la ragione era sempre stata la coscienza spietata di Rita e delle sue scelte.
Sua madre non la vedeva, non la sentiva, anche se le sfiorava una mano martoriata dagli aghi non avvertiva il suo tocco. Era un coma senza speranza di risveglio. Era straziante. La sua preghiera era stata esaudita, oppure il caso, come sempre, aveva creato quella situazione.
O certo, avrebbe potuto morire all'improvviso e le suore l'avrebbero chiamata, e lei sarebbe corsa per vederla ormai morta. Invece un Dio forse esistente aveva voluto esaudire il suo desiderio di starle accanto e di poter vedere il suo bel profilo, soffrire lo strazio del suo respiro anomalo, e soprattutto di quegli occhi schiusi di cui lei fissava il colore nocciola come se lo scoprisse per la prima volta, così nocciola.. Sua madre non aveva gli occhi marroni... Erano nocciola chiaro..
Si avviò all'uscita dopo aver salutato la compagna di stanza di sua madre, sotto il peso del suo dissenso.
Qualcuno dei medici o degli infermieri le aveva detto che ancora non era il momento, che sarebbe stata lunga quella quieta agonia. La consolava solo il fatto che sua madre non sentiva più niente.
Dormì, stanca. La giornata era stata lunga. Prima il funerale di quella povera Gemma, vittima di una famiglia opprimente. Poi la speranza per sua madre persa in pochissime ore e il telegramma che aveva chiesto di fare subito a suo marito perché dessero una licenza straordinaria a suo figlio che era a Firenze a prestare il Servizio Militare come Ufficiale Medico.
La mattina della domenica si riavviò verso la collina dove sorgeva l'Ospedale.
Sua madre era sempre nella medesima posizione. Riprese a bagnarle le labbra che si inaridivano schiuse a succhiare automaticamente l'aria mentre il mantice del petto altrettanto automaticamente inspirava profondamente.
L'impotenza della sua condizione umana annullava tutto. Ogni reazione. Ci sono momenti in cui dobbiamo stare fermi e solo subire il destino. Sperava solo che dessero la licenza a suo figlio in modo che potesse arrivare mentre era in qualche modo ancora viva, se non il cervello il corpo. Tutto era inutile di fronte alla morte e alla sua potenza.
Uscì di nuovo in corridoio, così fino a sera. Mentre era di nuovo appoggiata alla vetrata si avvicinò una donna gentile, una persona in visita a qualche ricoverato: "Signora, - le disse - si faccia forza. La vedo da ore che sta giù, proprio giù. Coraggio."
Rita la ringraziò un po' sorpresa di quella comprensione, così diversa dal biasimo acido della compagna di stanza di sua madre. Le sorrise pallidamente.
"L'ho vista anche ieri sa.. Ero qui anche ieri in visita ad una mia parente. Lei sta troppo giù. Deve farsi forza."
"Grazie. Mia madre è in coma.. Sta morendo." Disse senza compatirsi, piegata ma asciutta nel suo dolore impotente.
Provò gratitudine per quella donna gentile che aveva avvertito il suo sentimento, così diversa dalla forse più rozza compagna di stanza di sua madre, legata a sentimenti più elementari che non derogavano da rituali scontati.
Ormai le era insopportabilmente doloroso guardare la sacca di urina che non era più urina, ma sangue, segno che i reni non funzionavano più.
Il respiro di sua madre era solo una potenza meccanica di un corpo forte in cui la vita, dopo 85 anni, se ne andava lentamente dimostrando la forza vitale che aveva.
E lei pensava a quella frase di risposta che Serena le aveva dato mentre la conduceva in ospedale, in auto, accanto a sé: "Mamma, come ti senti?" E lei con un filo di voce ma chiara e lucida: "Morire".
Sua madre la stupiva sempre. Per la sua asciutta e consapevole rassegnazione anche quando le aveva rivelato cose gravi che aveva subito da suo padre, senza moto di rabbia o di risentimento o sdegno: semplicemente, piattamente, come di cosa accaduta e in quanto tale non modificabile, subita e incommentabile, perché la sua stessa gravità aveva spento tutto come la morte.
E lei pensava a quando quella vita che si stava spegnendo sotto i suoi occhi era nata, fragile e trascurata da una madre già sfiancata da sei precedenti parti e gravidanze.
"Mia madre si ammalò di mal d'ossa, - le raccontava con la stessa rassegnata dolcezza - la rigiravano con le lenzuola perché non riusciva più a muoversi. Mi affidarono a mia sorella di dieci anni. Lei mi dava da bere un po' di latte intingendo un ciuccio improvvisato con un telo pulito dove dentro metteva della farina per dargli la forma di un capezzolo. A tre mesi non riuscivo a tenere la testina ritta che mi ciondolava quasi senza vita. Per capire se ero viva una volta mi misero uno specchietto davanti alla boccuccia e si appannò, così capirono che ancora respiravo."
Comunque ce l'aveva fatta. Era cresciuta in quella grande casa patriarcale piena di fratelli e di sorelle, altri quattro ne erano nati dopo di lei. Ed era un vanto per lei ripetere: "Eravamo in undici! Tutti viventi!" In un tempo, quello all'inizio del ventesimo secolo, in cui la mortalità infantile era altissima.
La domenica finì. Un'altra notte sarebbe passata con quel respiro meccanico, profondo eppure calmo.. Con quelle labbra schiuse che si seccavano, con quegli occhi schiusi che non vedevano più nulla, con la sacca ormai piena a metà di sangue scuro..
Con quale dignitosa grandezza sua madre moriva.. Nessuna disperazione, solo quel misterioso dolore se la sollevavano, doveva essere un dolore acuto per strapparle quel grido.. Poi quella quieta consapevole risposta in auto... Era questa la pazza, la matta, la schizofrenica?
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