David Grossman, Amos Oz e Abraham B. Yehoshua
La scrittura, lo stile di essa, può piacere o non piacere.
Ma uno scrittore muta anche da libro a libro.. Oz, che io amo, non l'ho ritrovato e capito interamente in tutti i suoi libri.. Ma un filo conduttore di ciò che egli è, magari un pizzico di lui, c'è in ogni suo libro da me letto.
Per la prima volta ho comperato un libro del decantato David Grossman e, non la storia, forse nemmeno lo stile che però non mi affascina, ma lui, quello che di lui traspare nel suo libro, non mi dice nulla, non mi emoziona e, in alcuni punti, mi infastidisce anche.
Il libro è "La vita gioca con me" ed è un romanzo che Grossman ha costruito ispirandosi alla vita di Eva Pani Nahir conosciuta da Grossman e da cui egli ha avuto il permesso di ispirarsi per il suo libro.
Siamo dopo la Seconda Guerra Mondiale nella Jugoslavia di Tito che, scopro leggendo, come molti dittatori aveva la paranoia di prendersela con chiunque, imprigionando per reato di opinione anche chi, magari, accettava il suo regime e ne faceva parte. Le prigionie erano feroci, disumane, volte a distruggere le persone accusate anche senza prove, ma con soli sospetti, di essere contro Tito.
Da un punto di vista storico il libro si rivela dunque interessante per me che di tutto ciò non sapevo nulla. Conoscevo solo quello che i comunisti di Tito hanno fatto agli Italiani buttandoli nelle foibe. Non sapevo di gulag in cui internavano i loro stessi cittadini comunisti temendo che fossero favorevoli ai russi di Stalin, comunisti vincitori della guerra che Tito temeva volessero inglobare il suo Paese, mentre egli voleva un comunismo nazionalista.
Ma anche se nella narrazione delle vicende di questa donna ebrea jugoslava si affresca qua e là lo sfondo in cui si svolge la sua vita, si tratta di sprazzi visivi legati ai momenti da lei vissuti, in modo a volte confuso. L'unico punto lucido e forse anche troppo insistito nei particolari è quando la protagonista è reclusa nell'isola Goli Otok.
Quello che ho trovato fastidioso è proprio il modo di narrare di Grossman e il massimo l'ha raggiunto in quello che doveva essere il viaggio chiarificatore nei luoghi dove la protagonista è nata e poi è stata prigioniera, accompagnata dalla sua discendenza: sua figlia, la figlia di questa dunque sua nipote e l'ex marito di sua figlia e padre di sua nipote che, alternandosi con lei, riprende con una telecamera i dialoghi di quel viaggio, in modo assurdo e allucinato.
Forse allo scrittore è sembrato un modo di narrare originale questo delle riprese ossessive con telecamera, mentre io l'ho trovato massimamente fastidioso.
I personaggi, poi, a parte la psicologia della protagonista che, presa dal reale, regge, il resto è da trattato di psichiatria.
L'ex marito della figlia innamorato come un cane di una donna che l'ha abbandonato con una bimba piccola per andare randagia per il mondo e che gli racconta impietosamente del suo darsi a tutti, ovunque, con perversioni varie, in un parossismo malato a cui solo la figlia che sa e ascolta da in un punto del racconto un nome: ninfomania.
Ma l'incredibile uomo ha per lei tenerezza e attenzione delicata incomprensibili, se non attribuendo anche a lui una deviazione psichica.
Né può dirsi accettabile sul piano psicologico che tutto questo, insieme al risentimento per la madre prigioniera nel gulag di Tito, sia avvenuto perché la ninfomane è rimasta sola a sei anni e mezzo a causa dell'imprigionamento della madre.
La narrazione è nebulosa su questo aspetto della vita di bambina abbandonata di Nina, ripugnante figlia della protagonista: sembra comunque che ci fosse una sorella della imprigionata che l'ha accolta. Ma Nina odia sua madre perché una possibilità di non farsi imprigionare l'aveva: dire che suo padre, amatissimo marito di sua madre, era un traditore. Suo padre, quasi un eroe, fatto uccidere ingiustamente da Tito. La odiatrice e ninfomane ritiene che sua madre doveva accondiscendere a questa infamia, tanto suo padre ormai era morto mentre lei bambina era viva.
Tutti sono amorosamente intorno a questo soggetto di un egoismo illimitato, incapace di superare i traumi di un'infanzia attraversata da vicende feroci postbelliche, che attribuisce al forzato abbandono di sua madre tutto quello che di nefando ella è.
Nessuno la condanna e tutti si preoccupano solo di lei: compresa la figlia abbandonata a sua volta da piccolissima e non certo per cause drammatiche come avvenne per sua nonna, ma solo per la totale disaffettività di Nina, la figlia della protagonista.
Questa figura eccessiva nella sua patologia mi ha ricordato a tratti la croata ninfomane, pervertita e sistematica traditrice dell'ignaro marito, del romanzo di Roth "Il Teatro di Sabbath", e anche la protagonista del libro meno bello di Oz "La scatola nera".
Strane queste figure di donne abbrutite come prostitute, la cui psicologia non ritengo si possa ascrivere ad una normalità dell'esser donna, qualsiasi sia stata l'educazione ricevuta e gli eventuali traumi infantili che, peraltro, nella croata di Roth non ci sono, come non sembrano esserci nella protagonista del libro di Oz.