Di Primo Levi so tutto: la sua vita, quello che ha scritto, la sua morte...
L'ho già scritto da qualche parte: la sua morte mi ha colpito e mi sono sentita tradita da lui che tanto ha scritto e scrivendo pensavo avesse vinto su quei mostri, così invece ho provato il dolore di una sconfitta sua e mia che non sono ebrea ma è come se lo fossi, perché sto dalla loro parte, la parte dei perseguitati senza ragione se non la malvagità umana che cerca sempre qualcuno da piegare usando la menzogna per giustificare il proprio immondo agire.
E ho letto molto sui suoi libri ma non me la sento di entrare nel racconto della vita nel lager... Mi fa troppo male. Evito anche i film. E' la sconfitta del genere umano e non voglio ricordarmene soffrendo. Lo so che esiste quell'umanità e il nazismo ne è stata la faccia estrema. Ma il male è dentro la specie umana e si esprime in tanti modi, cercando scuse per estrinsecarsi.
A 77 anni per la prima volta leggo un libro suo: "Il Sistema Periodico" ed è un libro bellissimo che, legando agli Elementi della Tavola Periodica fatti anche della sua esistenza, da pure cenni di "quella" parte della sua vita che gli è stata rubata lasciandogli una ferita indelebile, quindi un danno fatale. Ed è questo che mi fa male: che gli sia stato fatale..
Di questo bel libro una parte mi ha colpito ed è la parte che si riallaccia alla sua tragica esperienza ad Auschwitz. La vita ci sorprende con i suoi effetti speciali, così è avvenuto che, nel suo lavoro di Dirigente di una Ditta di Vernici, Primo si è trovato a gestire un contenzioso con un fornitore tedesco di una resina che la Ditta usava per produrre un certo tipo di vernice. Le lettere di spiegazione e di tentata giustificazione dei difetti presentati da tale resina da parte della Ditta tedesca erano firmate da un certo Müller. Un errore ripetuto nella scrittura di una parola in tali lettere smosse nelle mente di Primo un'ansiosa sensazione.
Conosco quella sensazione... Avverti qualcosa che non è palese se non a te. E' un'intuizione che ti inquieta perché sai nel profondo che non ti sbagli, anche se fatti corposi e concreti per pensare che così sia non ne hai.
Nel caso di Primo non si sbagliava: quel Müller era il Müller che nel lager di Auschwitz dirigeva il Laboratorio di Chimica dove il deportato Primo Levi era stato messo a lavorare per i fini del Reich.
E qui c'è tutto Primo Levi, quello che di lui ritrovo in me stessa, come tante volte ho scritto dell'incontro fra anime diverse, distanti nel tempo e nello spazio eppure uguali nel sentire, nei sentimenti, nelle reazioni ai fatti della vita: l'incontro del lettore con lo scrittore, due anime che si incontrano a distanza di tempo e di spazio.
Non mi è certo accaduto con tutti, ad esempio assolutamente non mi è accaduto con Philip Roth, di cui parlerò più avanti, dato che nel libro c'è in appendice la riproduzione di un'intervista che Roth fece a Primo Levi: da scrittore a scrittore e da ebreo ad ebreo. E in quel dialogo ritrovo tutto quello che di differente esiste fra questi due esseri umani che mi fa amare l'uno quanto repellere l'altro.
Tornando a Primo egli scrive: "L'incontro che io aspettavo, con tanta intensità da sognarlo (in tedesco) di notte, era un incontro con uno di quelli laggiù, che avevano disposto di noi, che non ci avevano guardati negli occhi, come se noi non avessimo avuto occhi."
Capisco la voglia di confronto con chi ti ha fatto del male, senza motivo, nel suo caso un male estremo.
Non ho incontrato quel male, per mia fortuna, ma il male insensato fatto solo per il gusto di farlo, nella totale consapevolezza di essere nella menzogna ma proprio per questo provandoci più gusto, fingendo fino alla follia che quello che si vuole dimostrare sia vero, nella totale e consapevole manipolazione della realtà, non volendo riconoscerti ciò che tu sei negando la realtà tangibile, costruendone un'altra visibilmente non possibile, non vera, quello si, l'ho incontrato e data la mia giovane età è stata una scoperta traumatizzante. Sono uscita da quel trauma dicendomi: "Se questo sta accadendo, se c'è gente così, capace di questo, debbo solo accettare che esiste e tenerne conto per il futuro."
Primo ha dovuto superare ben altre prove che il semplice cambiare di casa come feci io per allontanarmi da un ambiente non recuperabile se non ricorrendo a vie legali, nelle quali non volli inoltrarmi per non avere nulla a che vedere con tale melma umana.
Ma Primo ha voluto confrontarsi con la melma ed ha scritto a Müller inviandogli però quello che rappresenta sé stesso e per Müller uno specchio in cui specchiarsi, lui e la sua specie: una copia di "Se questo è un uomo" nell'edizione tedesca.
La reazione è stata in parte prevedibile ed in parte no.
Una pletora di tentativi di giustificazione del suo agire: prevedile.
Una richiesta di perdono non prevedibile che Levi così riporta: "Percepiva nel mio libro un superamento del Giudaismo, un compimento del precetto cristiano di amare i propri nemici ed una testimonianza di fede nell'Uomo, e concludeva insistendo sulla necessità di un incontro,..."
Incontro di cui Primo sentiva il ribrezzo insieme al pudore e ritegno suoi, e da cui lo salvò la morte improvvisa dell'ex-nazista, anche lui Chimico, che ora, davanti al conto che la Storia gli presentava, era entrato in crisi.
Ma a me ha colpito la bontà di Primo Levi, il suo aver cercato il confronto per gettare in faccia ad uno dei rappresentanti di quella infamia l'ingiustizia del loro agire, per poi però riconoscergli in fondo una dimensione di umanità fino a non rifiutargli drasticamente l'incontro fisico richiestogli.
Mentre il nazista osa dirgli che "Percepiva nel mio libro un superamento del Giudaismo, un compimento del precetto cristiano di amare i propri nemici"!
Ebbene, io nasco cattolica, sono stata educata in ambiente cattolicissimo: iscritta all'Azione Cattolica fin dall'età di 11 anni frequentandola assiduamente fino ai miei 18 anni; mia madre era cattolica credente in tutti i precetti della Chiesa Cattolica e mi ripeteva come un mantra "La miglior vendetta è il perdono". Ma non ho mai accettato il mantra di mia madre e ancor di meno lo accetto ora che ho 77 anni ed ho attraversato la vita.
Trovo nelle parole del nazista Müller il suo pregiudizio sugli ebrei: superamento del Giudaismo!
E' evidente che egli attribuisce alla religione ebraica, o solo alla mentalità ebraica per i laici, una connotazione negativa in confronto al cattolicesimo che discende dalla predicazione dell'ebreo Cristo, il quale prescrive di perdonare, mentre il Dio della Bibbia giudica e punisce.
"superamento del Giudaismo!" E perché mai?! Non so come Levi non abbia sentito l'offesa nelle parole di questo vigliacco sconfitto nella sua aberrante ideologia dai russi e dagli americani!
Egli, ebreo, è molto più "buono" di me educata nel cattolicesimo ed oggi serenamente atea.
Altro gli avrei risposto al posto di Levi a Müller!!!
Ed eccomi all'appendice, all'intervista che lo scrittore americano Philip Roth fa a Levi.Di Roth comperai un libro dopo che, morto, ne scrissero che se fosse vissuto ancora sarebbe stato sicuramente designato per il Premio Nobel per la Letteratura.
Fra vari titoli decisi di iniziare da "Il teatro di Sabbath": e lì ho finito. Nulla c'è nella scrittura di costui che mi attragga e che io condivida. Non mi stupisco delle lodi di chi pensava che meritasse il Premio Nobel per la Letteratura giacché una che il Nobel l'ha preso, Doris Lessing, ha fatto per me la stessa fine: un libro "Il Diario di Jane Somers" e basta mai più!
Non mi stupisco dunque delle domande di un uomo come Roth per il quale il sesso, anche depravato, è argomento del suo raccontare la vita, che chiede a Primo di Giulia, la compagna di lavoro per la quale egli ha provato un timido sentimento mai a lei svelato e che poi sarà una cara amica di famiglia per il resto della vita.
Come capisco invece l'animo di Primo e come mi piace, lo amo, lo comprendo, tanto quanto Roth mostra di non poterlo proprio comprendere dalle domande che gli pone e non può nemmeno capire le risposte educate che Primo Levi gli da.
E all'ultima domanda che Roth gli pone, quella sugli scrittori che hanno fatto i Dirigenti in fabbriche di vernici, Levi gli ricorda quello che io avevo in mente e che Roth non ha citato dimostrando una lacuna: Italo Svevo.
E all'esempio di Anderson che abbandonò il lavoro per poter scrivere Primo Levi oppone il suo pensiero che è anche il mio: "..no, a me non sarebbe mai venuto in mente di abbandonare la famiglia e la fabbrica per mettermi a fare lo scrittore a tempo pieno come ha fatto lui; avrei avuto paura del salto nel buio, ed oltre a tutto avrei perso il diritto alla pensione".
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